Lo chiamavano il Ponte delle Tette. Appoggiati maliziosamente sul parapetto, i floridi seni delle cortigiane facevano bella mostra di sé per attirare l’attenzione dei clienti.
Spesso dalle finestre aperte si poteva vederle anche nude a mostrare le loro grazie.
Lo scopo non era solo edonistico. In conseguenza alla dilagante omosessualità fu un espediente per distogliere gli uomini dal peccare contro natura.
Le cortigiane di basso rango vivevano in case malsane e la clientela apparteneva al popolino. Diverso il tenore di vita di quelle d’alto bordo che abitavano dimore signorili, indossavano abiti eleganti e sfoggiavano chiome bionde rossastre, il famoso rosso Tiziano. Il termine di meretrice e di cortigiana non era la stessa cosa, la cortigiana alla bellezza univa capacità “imprenditoriali” di successo economico e di prestigio.
Desiderata e ambita dai potenti, invidiata dalle nobili donne per la libertà di cui poteva disporre, ammirata dalle prostitute che non avevano avuto la stessa fortuna, Veronica Franco è la cortigiana più famosa nella Venezia del ‘500.
Bella e seducente, bionda, occhi azzurri, sopracciglia marcate, pelle diafana, è ritratta dal Tintoretto in una tela andata perduta. Alla bellezza associa spiccate doti intellettuali, produce versi e prose guadagnandosi una fama pari a quella che le procura il suo mestiere. Pubblica nel 1580 una cinquantina di lettere familiari indirizzate a diverse persone, una copia la dona a Montaigne durante il suo viaggio in Italia.
Troppo parlare del mestiere di questa donna piuttosto che del valore dell’autrice. Ci si occupa soprattutto della vita personale suscitando la polemica, di come una donna di facili costumi possa possedere anche virtù intellettuali. L’unico contributo femminile alla letteratura italiana porta la firma di una malfamata cortigiana. Nonostante le riserve, le poesie di Veronica appaiono in diverse raccolte antologiche. Alcuni versi li dedica a Marco Venier, il rampollo di una potente famiglia veneziana destinato all’importante carriera di senatore e di cui è innamorata, forse anche ricambiata. Il corteggiatore Venier è uno dei tanti ad apprezzare le grazie di questa donna avviata al mestiere più antico del mondo dalla madre che lo ha praticato in maniera eccellente.
Veronica nasce nel 1546 a Venezia in una famiglia borghese, il padre un nobile di toga, non riesce a mantenere adeguatamente i suoi quattro figli ed accetta che la moglie Paola Fracassa eserciti il mestiere di cortigiana.
L’essere maritata è la condizione indispensabile per esserlo, altrimenti il declassamento alla degradante categoria di “prostituta” esposta ad ogni rischio compreso quello di essere derubata o uccisa.
A quattordici anni Veronica sposa il medico Paolo Panizza, che fa la stessa fine del suocero. A differenza di ciò che accade in altre realtà storiche e sociali, la Serenissima non discrimina la donna di piacere garantendole i diritti civili di una cittadina.
La cortigiana è una donna indipendente, emancipata, svincolata dal ruolo esclusivo di moglie e madre. Veronica fa parte del “Ca’ Venier” uno dei cenacoli letterari più in voga di quegli anni, dove si riuniscono i letterati affascinati dalla sua personalità.
Con lei si intrattengono in liete conversazioni davanti a un fiasco inebriante di malvasia. Tra i frequentatori abituali, il Tintoretto che Veronica ringrazia nelle Lettere per averla ritratta in maniera splendida. Un capolavoro di raffinatezza femminile, il Canzoniere, le cui Rime dovrebbero essere dedicate a Enrico III di Francia incontrato da Veronica quando visita Venezia nel 1574. Perfino il giovane re non resiste a tanta bellezza e si ferma nella città lagunare quindici giorni alloggiando a Palazzo Foscari…
La fama di Veronica allora ventottenne raggiunge anche il giovane Enrico di Valois il quale non vuole lasciare la città senza aver goduto delle grazie di questa donna.
Va a trovarla nella raffinata dimora sul Canal Grande. Della splendida serata serberà come ricordo un suo ritratto.
“Chi è bello deve essere felice” con questo inno all’amore umano, la poetessa non ha pretese di innalzamento spirituale.
L’aspetto dell’amore è tutto terreno, purché sia raggiunto “con nobiltà e gentilezza”. Veronica dà la sua ricetta della felicità che non contempla il senso del peccato e la mortificazione della carne. Lei è una sacerdotessa dell’amore libero.
Alla fine della sua “carriera” Veronica Franco fa un atto di generosità lasciando i propri beni alla creazione di un istituto destinato alle meretrici che vogliono redimersi, forse un segno di pentimento per la sua vita libertina. Alcune dame veneziane l’anticipano con la costruzione di una Casa del Soccorso per le meretrici.
Muore di febbri all’età di quarantacinque anni dopo aver vissuto come “padrona del suo destino” titolo del film che le hanno dedicato intravedendo in lei il simbolo dell’emancipazione femminile.