UNA CONDIVISIBILE DECISIONE

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La Camera dei Deputati abroga il reato di abuso d’ufficio: Un passo verso la semplificazione amministrativa e la tutela degli amministratori pubblici.

Il 10 luglio, la Camera dei Deputati, dopo la prima lettura in Senato ha cancellato dal nostro ordinamento giudiziario penale il reato di “abuso d’ufficio previsto dall’art. 323 c.p.. Il legislatore ha così recepito una istanza proveniente da larga parte degli amministratori pubblici, di ogni orientamento politico, per i quali questa figura di reato era divenuto una sorta di spauracchio idoneo ad ingenerare nel pubblico amministratore o funzionario la “Sindrome della firma” su ogni provvedimento amministrativo.

In altri termini l’adozione di uno qualsiasi delle migliaia di provvedimenti che consentono di mandare avanti la farraginosa macchina burocratica dello Stato, poteva essere ritenuta, anche solo a livello di ipotesi investigativa, idonea ad integrare l’art. 323 c.p. e determinare così la apertura di un procedimento penale a carico del soggetto che aveva sottoscritto il documento. Non si può negare che in taluni limitati casi, la norma consentisse di reprimere condotte, talora odiose di favoritismo e condotte “spia” di reati più gravi consumati contro la Pubblica Amministrazione.

Però nella maggior parte dei casi la norma costituiva un freno, un appesantimento e talora un pretesto al già difficile scorrere delle procedure amministrative per realizzare progetti, nel timore, assai fondato, che un avversario politico o l’iniziativa autonoma ed opinabile di un pubblico ministero, focalizzasse l’attenzione su una determinata procedura, determinando la nascita di un procedimento penale.

Stante la farraginosità delle norme, la sottigliezza interpretativa e le lungaggini giudiziarie, il processo poteva durare anni, bloccando qualsiasi progetto ed esponendo l’amministratore a rischi di natura penale, economica, disciplinare e reputazionale. Rispetto alle centinaia di casi pendenti nelle Procure e nei Tribunali per questo reato, nella grande maggioranza dei casi la vicenda finiva in un nulla di fatto e si contano sulle dita delle mani i casi di condanna definitiva per questa fattispecie penale.

Il problema principale si poneva perché il legislatore in una ottica garantista, volendo “tipizzare” le condotte da reprimere e cercando di non intervenire sulla discrezionalità amministrativa aveva comunque delineato uno schema di condotta in quella figura giuridica, che non metteva affatto al sicuro da conseguenze negative il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che volessero correttamente svolgere il proprio lavoro. Per evitare conseguenze negative impreviste ed imprevedibili, il funzionario in realtà, cercava in ogni modo di non sottoscrivere documenti che potessero presentare un minimo rischio e quando fosse stato costretto a farlo, firmava solo dopo essersi munito di un preventivo “scudo” e cioè per così dire, di un parere di regolarità amministrativa dell’atto, espresso da studi legali i quali fornivano una propria opinione a sostegno o contro la scelta amministrativa ma sempre on la possibilità che i magistrati, magari giovani e volenterosi ma non sempre preparati in materia, avessero una convinzione opposta e formulassero comunque un’imputazione.

Questa era la prassi tesa, comunque, a difendersi dall’accusa, quantomeno per l’assenza dell’elemento soggettivo del reato, dimostrando che si era fatto tutto il possibile per operare correttamente. L’intento del legislatore di “tipizzare” il reato, non è riuscito al punto tale che per certi profili, presentava maggiore definizione e chiarezza la figura di reato che ha preceduto l’art. 323 c.p. e cioè l’abrogato art. 324 c.p. (cancellato dalla L. 26/04/1990n. 86, il quale semplicemente prevedeva la sanzione penale per il pubblico ufficiale che direttamente o per interposta persona o con atti simulati “prendeva un interesse privato” in qualsiasi atto della P.A. presso la quale esercitava il proprio ufficio. Insomma il rimedio si è rivelato peggiore del male! Personalmente ho sempre evitato di portare a giudizio un imputato con la sola accusa di abuso di ufficio per le ragioni sopra dette e, quando ho contestato questo reato, l’ho sempre fatto perché oltre a questa fattispecie si configuravano altre figure penali quali il falso o la truffa che spesso accompagnano l’abuso d’ufficio e che, con una certa sicurezza, lasciano intuire la concretezza dell’accusa. Di fronte ai difensori dell’appena abrogato art. 323 c.p. che si dolgono che si sia eliminata la figura di un reato “spia” di altre condotte più gravi, quali ad esempio, la corruzione, rilevo che non si può, da un lato, prevedere la presenza di sempre più penetranti poteri di controllo ad opera di organi che non sempre hanno la competenza specifica per sindacare procedure assai particolari e complicate e che, per cavarsi d’impiccio, spesso formulano ipotesi di accusa superficiali che saranno smentite a distanza di anni da altri magistrati e poi pretendere velocità ed efficienza della P.A.

In ogni caso l’attuale legislatore nell’abrogare l’art. 323 c.p. ha comunque voluto dare un messaggio circa l’intenzione di tenere alta la guardia perché, ad esempio, con il D.L. 4/7/2024 n. 92 in vigore dal giorno successivo ha creato la nuova figura dell’art. 314 bis c.p. di “ indebita destinazione di denaro o cose mobili” cioè ha individuato una specifica e precisa condotta da sanzionare venendo così a colmare, almeno in parte, situazioni che prima erano, più o meno, tutelate dal reato di abuso d’ufficio. E’ auspicabile che anche in futuro ci si muova in questa direzione!