TU E GLI ANNI NOVANTA: VOLERE E NON POTERE…

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«E tu bellillo int’ a’ televisione / me scamazzav’ a’ palla tu e a’ competizione / tu e gli anni Ottanta: volere è potere / e io vulevo, nun potevo e m’a’ facevo a piere». Così recitava una strofa di “Non c’è tempo”, gagliardo inno generazionale dei napoletani 99 Posse; correva l’anno domini 1996 e anche in Italia si faceva largo una scena musicale hip-hop che mescolava con gusto e sapienza influenze rap, funk, raggamuffin e dub: Almamegretta, Bisca, Onda Rossa e altre decine di progetti sviluppati all’interno dei centri sociali, altro che i bambocci trappettari finto-cattivoni partoriti dalle fabbriche di tatuaggi, lustrini e isterie di Amici e TikTok. Eravamo nei Novanta, e nulla sarebbe più stato come prima. Il decennio si apre con Schengen, il delitto di Via Poma (colpevoli ancora ignoti), la guerra santa di Bush padre, assecondata dai soliti zerbini alleati, ovviamente pacieri del mondo ed esportatori di benessere e democrazia – non si dica mai di morte, distruzione e massacri di innocenti – e nella solita Italietta alle vongole ci esaltavamo per le notti magiche, inseguendo un gol. Gran bel calcio, non c’è che dire – girava ancora un certo Diego Armando Maradona – e sotto la maglia azzurra battevano i cuori di gente veramente forte come Giannini, Baggio, Donadoni, Mancini, i poveri Vialli e Schillaci, e pensare che oggi tocca fare i conti con Retegui e Scamacca, con tutto il rispetto.
Erano gli ultimi barlumi di una nazione gaudente e spensierata, il 1990 e un’estate che avrebbe benedetto il «…torneo che il paese intero stava pompando, dopo i lavori conclusi last minute, i 24 lavoratori morti, il fiume di denaro disperso per ristrutturare gli stadi, le tangenti e i tribunali postumi. Un Mondiale da vincere a tutti i costi» (Stefano Boldrini, Il Fatto Quotidiano, 19 settembre 2024). Ma il destino fu improvvido, e ci mise di mezzo un colpo di capello del biondo Caniggia tra la dormita di Ferri e Zenga, poi la tragedia dei rigori: fine del sogno, in finale va l’Argentina di Maradona, fischi e lacrime per lui all’Olimpico. Perderà contro la solida Germania Ovest, attesa al varco della riunificazione, con il marco già moneta ufficiale della DDR e, almeno per alcuni, la fine della storia a un passo dal baratro (vedi Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, ed. or. 1992).
Se non proprio sulla storia, cala il sipario sulle notti magiche, e con esse si spengono le luci su quella favola, emblematica e crudele, improvvisamente il buio avvolgerà le spoglie del paese, tutto cambierà – e resta ancora in sospeso – e nel breve corso di un paio d’anni l’innocenza è persa per sempre: l’Italia, pedina centrale negli assetti della guerra fredda, è ormai una canna al vento, Mani Pulite proverà a bonificare una classe politica eternamente corrotta e incapace – che alla fine resisterà impunita – e Cosa Nostra, quando si dice le coincidenze, sferra il più violento attacco al cuore di uno stato che assiste, omertoso e inerme, al massacro dei migliori magistrati: «Il 1992 è un anno complesso, denso di avvenimenti importanti. Mani pulite e le stragi sono sicuramente fatti periodizzanti e hanno la forza di cambiare il corso della storia d’Italia. Nulla, dopo di allora, rimarrà come prima. “Anno traumatico”, lo definisce Guido Crainz, “anno rivelatore”. È l’anno che svela un ceto politico sprofondato nella corruzione. Milano ne è l’epicentro e si scopre una città fragile, smarrita, che non ha più lo smalto e il luccichio degli anni passati; la Milano da bere ha l’immagine sfregiata e ha perso l’egemonia morale. Ora è il cuore di un terremoto politico che sconvolgerà i partiti e decreterà la fine di alcuni. Quello che avviene in quell’anno sorprende tutti: forze politiche, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine, intellettuali» (Enzo Ciconte, “1992. L’anno che cambiò l’Italia. Da Mani Pulite alle stragi di mafia”, Interlinea, 2022). Un paese atterrito e anestetizzato, facile preda dei televenditori dell’imminente partito-azienda – ma questa è un’altra storia – con poche eccezioni di resistenza civile e culturale: «Così dicevano i nostri avversari. Li considero ancora oggi titoli di merito […] Tutti i nemici di Mani Pulite hanno detestato MicroMega» (Paolo Flores D’Arcais, in procinto di lasciare la direzione della meravigliosa creatura da lui fondata nel 1986, rispondendo a una domanda sul cosiddetto “giustizialismo”). E poi ovviamente la crisi economica più pesante di sempre, anno davvero tragico il 1992: dopo 15 anni di politiche a debito dissennate, finalmente arriva il conto e c’è da pareggiare il bilancio con una manovra finanziaria da 93000 miliardi, con Bossi che minaccia di usare i carri armati contro il fisco. A fare il lavoro sporco viene chiamato uno col pelo sullo stomaco, quel Giuliano Amato che di socialismo se ne intende e ci va giù duro, il 4 luglio ottiene la fiducia alla Camera e venerdì 10, col favore delle tenebre, prelievo forzoso retroattivo del 6‰ dai conti correnti delle banche italiane, legittimato con decreto d’urgenza pubblicato alla mezzanotte tra il 10 e l’11 luglio. Come dimenticare le bestemmie di mio padre? Complimenti, ma non basterà. Il buco è troppo grande e il mercoledì nero in agguato; il 16 settembre 1992, a seguito di una fuga di capitali da entrambi i paesi, sterlina e lira crollano, la debolissima moneta nazionale subisce una svalutazione del 7%, indici in caduta libera, crollo dei titoli, manovre speculative di vendita allo scoperto di valuta e 6700 miliardi persi in una sola giornata: è la finanza, bellezza! La campanella passa nell’aprile 1993 a Carlo Azeglio Ciampi, ultimo governo della cosiddetta “prima repubblica”, primo a essere guidato da un non parlamentare e primo (per 10 ore) con partecipanti post-comunisti: dopo il giuramento, la Camera respinse quasi tutte le autorizzazioni a procedere nei confronti di Bettino Craxi, e alle otto di sera il PDS ritirò i suoi ministri, così come fecero i Verdi con il loro unico ministro. Durò un battito d’ali, il tempo di approvare la finanziaria 1993, bombardato un giorno sì e l’altro pure dal guerriero di Pontida; fece pochi danni semplicemente perché non fece nulla, dimissioni a gennaio 1994 e strada spianata alla rivoluzione liberale (sic) iniziata l’11 maggio dello stesso anno. Sappiamo come è andata a finire. Detto fuori dai denti, fu anche il governo che inaugurò la sciagurata stagione a intermittenza dei sedicenti tecnici (e quindi banchieri), capitani coraggiosi, immancabili bocconiani, migliori, insomma quelli bravi a pensare alla buona sorte del popolo bue: auguri e figli maschi! Gli avvenimenti degli anni a seguire sono noti, tutti abbiamo perso qualcosa nei Novanta – quelli del passaggio dalla maturità alla laurea dell’autore di questo nostalgico intervento – qualcuno pure la dignità. Ci dissero che le cose erano cambiate, sarebbe stata dura, il lavoro più difficile e tante altre amenità: è andata peggio delle più lugubri previsioni di un occidente asfittico, feudale, gattopardesco, assuefatto, vile.
Ma non ce ne libereremo facilmente di questo dannato decennio. L’ultimo indizio neurovisivo è offerto dalla docuserie uscita il 13 settembre su Disney+ e intitolata “In Vogue: the 90s”, il racconto dei “dieci anni che hanno cambiato la moda per sempre”, piena di ospiti di lusso (Nicole Kidman, John Galliano, Claudia Schiffer e altre stelle da tappeto rosso): «Anna Wintour – direttore della più potente rivista di moda al mondo – non sopportava chi si vestiva da povero senza essere povero, ma quello era il grunge, “il rifiuto del lusso”, come sintetizza nel doc Stella McCartney. Tutte quelle camicie da boscaiolo e i jeans sbrindellati che a Wintour sembravano stracci, erano più solidamente il segno di un rigurgito esistenziale verso ciò che erano stati gli anni 80, con il loro carico di yuppismo, barocchismo pop, scaldamuscoli e power dress […] Vestivano meglio lo smarrimento e la disillusione di una generazione che se ne fregava di Wall Street e del Black Friday». È un bell’articolo di Alba Solaro (il venerdì, 6 settembre 2024) a ricordarci quanto le componenti estetiche, musica, arte, moda si saldassero profondamente al mulinello depressivo della crisi sociale, con la partecipazione inedita delle star di Hollywood e, paradossalmente, all’età dell’oro delle sfilate e delle top model: Naomi Campbell, Cindy Crawford, Linda Evangelista (che «non si alzava dal letto per meno di 10000 dollari al giorno»). Come aggiunge Solaro, «L’intera storia degli anni 90 potrebbe in effetti essere riassunta da una continua contrapposizione di corpi. Quelli che il grunge aveva seppellito sotto strati di maglie e desessualizzato, a ricordarci che quelli erano gli anni dell’Aids, il sesso faceva paura, altro che rivoluzione». Corpi, culture e controculture: come dimenticare l’ultimo concerto italiano degli strazianti Nirvana? Era il 22 febbraio 1994 al Palaghiaccio di Marino, il 5 aprile Kurt Kobain volle lasciare questo mondo a colpi di fucile. Partimmo in un centinaio dal capoluogo littorio di fondazione, macchine sgangherate e birre tiepide, ancora facevamo a botte per la politica; quel corpo devastato e ciondolante – insieme a Pat Smear, Krist Novoselic e Dave Grohl – ci regalò un’ora e poco più di una cupa litania, fisso sul microfono, poi fuggì dal palco senza un cenno.
L’ultima ora di innocenza: quella sera la perdemmo tutti, per sempre.