Sfida USA-CINA sulla cantieristica navale

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Un nuovo colpo alle catene del valore globali?

Il 24 e 26 marzo 2025 si è svolta a Washington l’udienza pubblica indetta dall’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (USTR) nell’ambito dell’indagine Sezione 301 contro le pratiche cinesi nei settori marittimo, logistico e cantieristico. La posta in gioco è alta: se le misure proposte fossero implementate, si profilerebbero costi elevati non solo per l’economia statunitense, ma per l’intero sistema commerciale globale, con conseguenze anche per l’Unione Europea.

Lanciata nel 2024 su richiesta di cinque sindacati statunitensi tra cui United Steelworkers e International Brotherhood of Boilermakers, l’indagine ha definito le politiche industriali cinesi come quote irragionevoli e quote lesive del commercio USA. In particolare, viene contestato l’uso sistematico di sussidi statali, il controllo governativo sulle aziende e l’adozione di piani industriali a lungo termine. Il risultato: Pechino controlla oggi oltre il 50% della produzione navale mondiale e il 95% dei container marittimi, una posizione che secondo Washington crea dipendenze critiche per le supply chain e limita la resilienza del commercio globale.

Nel febbraio 2025, l’USTR ha proposto:

Tariffe portuali fino a 1,5 milioni di dollari per ogni nave costruita in Cina e 1 milione per ogni scalo di operatori legati a cantieri cinesi;

Quote obbligatorie per trasporti via mare su navi statunitensi, con una progressione dal 39;1% – al 15% in otto anni, di cui almeno il 5% su navi costruite negli USA;

Restrizioni all’uso della piattaforma cinese LOGINK, ritenuta vulnerabile sul piano della sicurezza strategica.

A livello geopolitico, le conseguenze sarebbero immediate. L’industria cantieristica cinese – oltre il 50% della capacità globale – si troverebbe sotto pressione. Aziende come COSCO Shipping potrebbero dover ristrutturare intere rotte. Ma anche gli USA affrontano un dilemma: la loro flotta oceanica oggi è insufficiente a sostituire l’offerta cinese, e l’obbligo di trasporto su navi domestiche rischia di rallentare le esportazioni, aumentare i costi e compromettere la competitività di settori chiave come l’agricoltura.

Le ripercussioni si estenderebbero su scala globale. Armatori come Maersk o MSC potrebbero ricalibrare la composizione delle flotte per evitare la rotta USA-Cina, mentre paesi emergenti come India e Vietnam tenterebbero di colmare parte del vuoto lasciato da Pechino, senza poterlo fare nel breve periodo.

Sul piano del confronto strategico, questa mossa si inserisce in un processo di ridefinizione delle catene di approvvigionamento globali. Washington punta a rilanciare la propria industria navale anche come estensione del potere geopolitico: una flotta commerciale più ampia rafforza la logistica militare e il controllo delle rotte indo-pacifiche. Allo stesso tempo, si moltiplicano gli sforzi per creare “corridoi affidabili” con partner fidati, in chiave anti-cinese.

L’udienza ha visto oltre 60 testimoni, tra cui sindacati, aziende, rappresentanti del Congresso e osservatori internazionali. Da una parte, i promotori del provvedimento hanno evidenziato la necessità di ripristinare una base industriale sovrana negli USA, denunciando l’uso di sussidi da parte di Pechino come fattore di concorrenza sleale. La senatrice Tammy Baldwin ha definito le misure quote cruciali per la sicurezza nazionale.

Dall’altra parte, operatori del settore logistico, agricolo e manifatturiero hanno sollevato preoccupazioni.

Seaboard Marine, per esempio, ha dichiarato che 16 delle sue 24 navi sono costruite in Cina e che l’imposizione delle tariffe potrebbe compromettere la sopravvivenza delle flotte statunitensi. L’American Farm Bureau ha stimato un possibile calo del 12% delle esportazioni agricole con un impatto economico da 65 miliardi di dollari. Anche il settore retail ha evidenziato il rischio di aumento dei prezzi al consumo e la possibile deviazione dei traffici verso porti canadesi e messicani.

A livello internazionale, la International Chamber of Shipping ha criticato le misure come inefficaci per contenere la Cina, suggerendo invece incentivi diretti alla cantieristica statunitense. Il CARICOM ha chiesto esenzioni per i Paesi caraibici, fortemente dipendenti da flotte costruite in Cina per l’approvvigionamento di beni essenziali.

Per l’Europa, la posta in gioco è duplice. Da un lato, la Commissione Europea segue con attenzione gli sviluppi, consapevole del rischio di una nuova escalation protezionista e dell’impatto sulle esportazioni verso gli Stati Uniti. Dall’altro, la tempistica di questa offensiva commerciale si intreccia con i movimenti diplomatici più ampi: mentre si intensificano i segnali di una possibile apertura dell’UE verso Pechino su dossier strategici, gli Stati Uniti alzano la posta anche in chiave di negoziato geopolitico.

L’USTR ha accolto commenti scritti fino al 2 aprile e sta ora valutando l’adozione definitiva del pacchetto di misure. Fonti vicine alla Casa Bianca indicano che l’amministrazione starebbe preparando un ordine esecutivo per destinare i proventi delle tariffe al rilancio della cantieristica nazionale.

L’Europa, pur formalmente estranea al contenzioso, sarà chiamata presto a prendere posizione.

Perché se la posta in gioco è la sovranità industriale, anche Bruxelles non può permettersi di restare alla finestra.