OK BOOMER, C’È POSTO PER TE

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“Ok boomer” è un modo di dire e un meme usato dalle generazioni più giovani per sbeffeggiare gli atteggiamenti tipicamente associati alle persone più anziane. La parola “boomer” fa riferimento in particolare ai nati nei due decenni successivi alla Seconda guerra mondiale, più o meno tra il 1945 e il 1965, figli del boom economico occidentale successivo al conflitto, rinforzato soprattutto dalle iniezioni di denaro americano in cambio di una decina di basi militari solamente in Italia. A quanto pare, questa espressione si è diffusa per la prima volta nel novembre 2019 a causa di un video pubblicato su TikTok, il social preferito dagli adolescenti, in risposta a un uomo più anziano.

Facciamo due rapidi conti: una persona nata in Italia nel 1950 oggi ha 73/74 anni, ha trascorso infanzia e adolescenza in una fase estremamente ottimistica, ha lavorato e consolidato la propria posizione nell’unico periodo storico del Novecento immune da guerre e crisi economiche, fa parte dell’unica generazione postbellica in cui vale la correlazione tra titolo di studio e status socioeconomico, gode di un reddito da pensione oggi impensabile maturato nel generosissimo sistema retributivo, ha vissuto nella serenità psicologica di condurre una vita comoda e sicura, migliore di tutti quelli che lo hanno preceduto. Una generazione piuttosto fortunata e spesso inconsapevole di esserlo, va detto, che ha occupato e in molti casi ancora occupa la maggior parte del potere politico, manageriale, professorale e alla quale viene imputata, dai più giovani, la causa dell’irreversibile declino sociale, economico, etico e ambientale del cosiddetto occidente industrializzato. Una piccola miniera d’oro, nonostante tutto, a cui si deve probabilmente l’ultimo scampolo di pace sociale prima della guerra all’arma bianca del simile contro il simile che si scatenerà quando la natura farà il suo corso e restituirà alla terra questi monumenti viventi del welfare, a cui si aggrappano sempre più spesso anche le sorti di figli e nipoti, con buona pace di sociologi e demografi. E anche una discreta occasione: è sotto gli occhi di tutti che questa generazione sta mutando con una certa rapidità i canoni tipici dell’invecchiamento – vita più lunga, sempre più in buona salute – fino a diventare la prima apprendista di tendenze di consumo e partecipazione sociale finora inedite per l’età anziana. Per Confindustria, l’over 65 medio italiano «vive in una casa di proprietà, ha buone disponibilità finanziarie (pensione). Conduce una vivace vita sociale e frequenta spesso gli amici, fa sport, va in vacanza e si dedica sempre più ad attività di volontariato». A questo proposito, alcuni osservatori hanno coniato l’espressione Silver Economy, che indicherebbe un mercato di beni e servizi volti a soddisfare le esigenze più disparate degli ultrasessantenni, un vero e proprio affare vista la rivoluzione legata all’allungamento della vita e quindi della vecchiaia: «l’obiettivo è scovare e proporre soluzioni studiate specificamente per questa fascia di popolazione. […] Un business da capogiro. Se fosse uno stato sovrano, la Silver Economy sarebbe la terza potenza economica mondiale subito dopo Stati Uniti e Cina. La stima è del report redatto da Oxford Economics e Technopolis Group per conto della Commissione Europea» (L. Ermini, Silver Economy. La terza età è un affare, 2022).

Dunque, i paesi ricchi invecchiano e i ricchi – che sono quasi sempre anziani – si organizzano, e nel torpore dei quaranta gradi fissi offerti dallo sciagurato anticiclone africano, l’autore di questo breve intervento si imbatte casualmente nei nuovi gulag extralusso statunitensi, le Città del Sole in cui bambini e adolescenti non possono vivere. Tutto è iniziato negli anni Sessanta in Arizona, dove il magnate dell’edilizia Del Webb costruì Sun City, un villaggio-comunità in cui non si pagano le tasse e per vivere occorre avere almeno 55 anni, una specie di crociera su terra ferma dove l’inverno non esiste e si socializza tra barbecue, golf e cene eleganti; oggi Del Webb è il nome di una azienda che possiede più di cinquanta retirement communities, tutte molto simili, in venti stati americani, soprattutto al Sud dove il clima è mite, e in alcuni è già stata pubblicata una certificazione per aiutare le persone a fare la scelta giusta: «Per ogni unità abitativa ci possono essere anche persone più giovani a patto che ce ne sia almeno una sopra i 55 anni. Ma in nessun caso possono viverci bambini e adolescenti. Per questo i controlli sono così severi. In ballo c’è la sopravvivenza del concetto di retirement community, e di tutti i privilegi ad essa collegati. Primo fra tutti, quello di avere servizi di assistenza dedicati e di pagare meno tasse vista l’assenza di scuole e di altri servizi per bambini e teenager» (www.ilpost.it – 30/08/2010). D’altra parte, negli Stati Uniti gli ultrasessantenni controllano il 70 per cento della ricchezza delle famiglie americane e rappresentano il 45 per cento della spesa personale, non c’è troppo da aggiungere: «Segui le tue passioni, scopri nuovi interessi, crea solide amicizie con persone simili a te», il motto dei nuovi outlet argentati è sempre lo stesso.
C’è solo una cosa per cui si possono avere problemi a Sun City, i bambini, rigorosamente vietati. È un paese per vecchi, altroché.