Sono ben note le vicende legate alla resa incondizionata del Regno d’Italia, firmata segretamente a Cassibile (Siracusa) il 3 settembre 1943, resa pubblica cinque giorni dopo da Pietro Badoglio e Dwight D. Eisenhower.
«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza.»
Badoglio, capo del governo, pronuncia queste parole alla radio alle 19:42 dell’8 settembre.
É l’inizio del “tutti a casa” e del vagheggiamento della fine della guerra, in uno stato di confusione totale, dovuto alla scarsità di notizie e di ordini dei superiori, alla poca chiarezza del comunicato stesso, alla azione di governo a partire dal re Vittorio Emanuele III. Questo stato di cose ben presto si rivela come una tragica illusione, svelata dalla fuga del re, del figlio Umberto e della corte il giorno successivo.
I fatti legati al sovrano erano intimamente connessi con quelli di Benito Mussolini, ed hanno come scenario l’Abruzzo.
Ma prima di affrontare il tema legato alla regione abruzzese, vale la pena ricordare le vicende più importanti del 1943.
Il 23 gennaio le truppe abbandonano Tripoli.
Il 13 maggio gli angloamericani occupano Tunisi e Biserta, prendendo prigionieri circa 200mila soldati italiani e tedeschi.
Il 10 luglio avviene lo sbarco in Sicilia.
Il 19 luglio Roma viene bombardata.
Il 25 luglio il Gran consiglio del fascismo (che non si riuniva dal 1939) approva l’ordine del giorno Grandi che sfiducia Mussolini, il quale si reca dal re, che gli comunica la sua sostituzione da capo del governo con il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio. Poco dopo il duce viene arrestato su ordine del re, quindi condotto prima nella Caserma Podgora di Trastevere e dopo alcune ore tradotto nella caserma della Scuola allievi carabinieri a Prati, in via Legnano. Mussolini viene quindi portato a Ponza, considerata però troppo vulnerabile, anche alla luce di informative su due operazioni che stavano preparando i tedeschi: una per liberare Mussolini (piano “Eiche – Quercia”) e una per occupare Roma (piano “Student”). il 7 agosto Mussolini viene trasferito all’isola della Maddalena; infine, il 28, i servizi di sicurezza italiani lo prelevano e lo conducono nell’albergo posto ai 2.100 mslm di Campo Imperatore, nel massiccio del Gran Sasso d’Italia.
Il 14 agosto il governo Badoglio dichiara Roma “città aperta”.
L’8 settembre alle ore 19:50, pochi minuti dopo la conclusione dell’annuncio di Badoglio, i tedeschi diramano la parola in codice “Achse” con la quale si dà il via alle azioni aggressive contro le forze armate italiane ovunque si trovino.
Il 9 settembre, oltre la fuga del re ( e delle decine di funzionari e responsabili di governo), vi è lo sbarco degli Alleati a Salerno. A Chieti, all’albergo Sole, viene posto il comando generale, che dichiara sciolto il Regio esercito. Nel pomeriggio a Roma viene fondato il Cln, comitato di Liberazione nazionale.
Il 10 settembre i tedeschi occupano Roma. La sera Vittorio Emanuele III legge un proclama trasmesso a Radio Bari: «Per il supremo bene della patria, che è sempre stato il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita, e nell’intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio. Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale. Italiani! Faccio sicuro affidamento su di voi per ogni evento, come voi potete contare, fino all’estremo sacrificio, sul vostro Re. Che Iddio assista l’Italia in quest’ora grave della sua storia.»
Il 12 settembre con l’operazione “Quercia” forze speciali aeree (con alianti) e terrestri portano via Mussolini e lo conducono il 14 da Hitler alla “Tana del lupo”, la base del führer vicino all’attuale cittadina di Kętrzyn, in Polonia, all’epoca Prussia Orientale.
Il 19 settembre gli Alleati riconoscono come indipendenti dalla amministrazione militare alleata dei territori occupati (AMGOT) la Sardegna e le province pugliesi di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto, affidandole al governo di Badoglio. In questo modo strategicamente si creava una realtà politica legittimata, che si contrapponeva alla Repubblica sociale italiana.
Fra il 23 e il 27 settembre avvengono i combattimenti tra italiani e tedeschi nell’isola greca di Cefalonia. I tedeschi hanno la meglio e massacrano le truppe italiane: le stime parlano di circa 9.500 caduti in battaglia o giustiziati.
Il 23 settembre viene costituito lo stato fantoccio della Repubblica sociale italiana, non riconosciuto dalla comunità internazionale, succube del volere nazista. La nascita del governo collaborazionista era stata preannunciata da Mussolini a Radio Monaco il 18 settembre.
Il 26 settembre viene formato il Primo raggruppamento motorizzato del Regio esercito, che va a combattere al fianco degli alleati.
Fra il 27 e il 30 settembre ci sono le “Quattro giornate” di Napoli, durante le quali i militari fedeli al cosiddetto “Regno del sud” assieme alla popolazione locale e ai gruppi della Resistenza, scacciano dalla città i tedeschi e i fascisti.
Il 13 ottobre l’Italia dichiara guerra alla Germania, schierandosi al fianco degli anglo-americani.
Il 16 ottobre i nazisti, con la collaborazione dei fascisti, rastrellano la città di Roma, in particolare il ghetto, catturando 1.259 persone appartenenti alla comunità ebraica romana e deportandone 1023 ad Auschwitz. Di queste solo 16 avrebbero fatto ritorno a casa.
Queste dunque le date – guida degli avvenimenti del 1943.
Le conseguenze dell’8 settembre sono macroscopiche e tragiche.
L’Italia viene occupata dalla Germania, che attua la strategia della “terra bruciata” . I soldati italiani sono alla sbando e vengono fatti prigionieri a migliaia dai tedeschi, quindi considerati come Internati Militari Italiani (IMI) , non sotto l’egida della Convenzione di Ginevra, diventando di fatto gli “schiavi di Hitler”. Essi sono considerati traditori, affrontati con i peggiori epiteti, chiamati “fascisti” o “Badoglio” anche dagli altri internati nei campi di concentramento, qualora non fossero stati detenuti nei campi di prigionia per ufficiali o soldati.
Viene data loro la possibilità di tornare a casa se accettano di prestare giuramento per la RSI: dei circa 700.000 militari, la gran parte rifiuta di collaborare con i nazifascisti; 50.000 circa sono i morti nei campi, altrettanti al ritorno in patria per malattie contratte in prigionia.
Dall’8 settembre nascono i primi nuclei resistenziali, formati da politici ed ex militari.
E in Abruzzo? Perché è una storia esemplare?
Come si è visto, due sono i fatti macroscopici che avvengono in Abruzzo: la prigionia di Mussolini e la fuga di Vittorio Emanuele III con la famiglia e la corte dal porto di Ortona con destinazione Brindisi (Badoglio si imbarca da Pescara).
Ma la regione è stata importante per la storia della guerra e del fascismo per diversi altri motivi.
Il fascismo della prima ora ha attecchito in Abruzzo in maniera consistente, tanto che nelle elezioni del 1924 ha ricevuto l’85.9% dei voti a favore, la percentuale più alta in Italia. Circa un decimo della popolazione (che era di 1. 200.000 persone) sarà irreggimentata.
Tra i personaggi di spicco del regime ve ne sono stati diversi abruzzesi, fra i quali ad esempio Giacomo Acerbo (estensore della riforma elettorale maggioritaria che ha consegnato il potere a Mussolini), Adelchi Serena (membro del Gran consiglio del fascismo, in seguito ministro dei Lavori pubblici e segretario del Partito Nazionale Fascista), Alessandro Sardi (sottosegretario di stato ai Lavori pubblici). Senza dimenticare Guido Cristini, presidente del Tribunale Speciale Fascista dal 1928 al 1932.
La regione quindi era considerata sotto controllo e tranquilla, tanto che il processo agli assassini di Giacomo Matteotti era stato spostato a Chieti, assegnatovi il 21 dicembre 1925 “Per gravi motivi di sicurezza pubblica”. Amerigo Dumini, il capo della banda criminale fascista, è stato difeso da Roberto Farinacci.
Non meno importante è il fatto che la regione è diventata una zona di internamento per civili gestita dal ministero dell’interno: nel versante costiero vengono istituiti 15 campi o aree di concentramento e nella parte interna oltre 60 località di internamento (con in più a Teramo la caserma Mezacapo gestita dai nazisti). Spesso sminuito, in realtà l’internamento è stato uno strumento repressivo determinante nella politica razzista, di discriminazione e di isolamento del fascismo. La decisione di creare in Abruzzo non veri e propri lager, quanto piuttosto campi di detenzione, è dovuta alla conformazione del territorio, alla ridotta densità della popolazione e alla sua scarsa politicizzazione. I campi hanno “ospitato” apolidi, cinesi, greci, jugoslavi, “sudditi nemici”, sinti e rom, oppositori politici, e poi anche ebrei.
Proprio la vicinanza con la capitale e la conformazione del territorio avevano convinto molte persone, diverse delle quali ebree, a rifugiarsi in Abruzzo.
Dopo l’8 settembre 1943 la cattura degli ebrei e dei resistenti politici è favorita dalle schedature effettuate dai vari organi di polizia. Il convoglio n. 4 è partito da Sulmona con destinazione Dachau l’8 ottobre 1943. Il trasporto comprendeva 315 persone (166 italiani, albanesi, greci, jugoslavi, ai quali dopo Roma sono state aggiunte alcune centinaia di prigionieri britannici).
Dall’8 settembre arriva la guerra in casa: in pochissimo tempo l’Abruzzo, specialmente la provincia di Chieti e la fascia da Ortona al Sangro, al Gran Sasso, si trasforma nel punto nodale dell’intera strategia bellica in Italia e non solo.
Hitler dà l’ordine di procedere con l’operazione “Alarico” (o “Asse” in tedesco “Achse”), elaborata sin dal mese di maggio, occupare la penisola e contrastare l’uscita dell’Italia dalla guerra e le forze anglo-americane. Nel giro di pochi giorni i tedeschi occupano quasi tutta l’Italia. Il maresciallo Kesselring, comandante delle truppe tedesche in Italia, emana dei bandi per il lavoro coatto e contro qualunque forma di resistenza, andando oltre la moderazione, invitando i comandanti ad agire con “rigore dei mezzi”: di fatto si autorizza la strategia della “terra bruciata”.
In soli due mesi con la sola operazione “Alarico” vengono catturati più di 500.000 uomini, requisite tonnellate di viveri e materiale, presi migliaia di automezzi e mezzi corazzati e più di un milione di fucili.
Dal Tirreno (nei pressi di Minturno) all’Adriatico (fra Ortona e Vasto) fra settembre ed ottobre viene costruita la “Linea Gustav” che si aggiunge alle più piccole linee Barbara” e Reinhard”. Alla sua edificazione lavorano i genieri unitamente a uomini dell’Organizzazione di lavoro “Todt”, formata da ufficiali tedeschi con forza lavoro di operai tedeschi, italiani, stranieri volontari o coscritti, prigionieri di guerra.
In questo clima nascono le prime formazioni combattenti e avvengono i primi episodi in assoluto a livello italiano.
Il 23 settembre presso le “casermette”, alla periferia dell’Aquila, un plotone di tedeschi ed italiani fucila nove giovani tra i 17 e i 21 anni, mentre un loro compagno viene graziato. È l’episodio noto come de “I nove martiri aquilani”.
Questi ragazzi, unitamente ad altre decine, erano usciti dalla città la notte precedente per recarsi verso il Gran Sasso, sia per sfuggire al bando di arruolamento e lavoro coatto, sia per raggiungere i primi gruppi di resistenza armata nel Teramano. Alcuni di loro erano armati, ed avevano seguito le indicazioni del colonnello Gaetano D’Inzillo, che li avrebbe raggiunti (azione che invece non avviene). Il gruppo aveva sostato a Collebrincioni, un paese a una decina di kilometri dall’Aquila. La mattina del 23 erano stati intercettati da forze tedesche (forse “ispirati” da una soffiata) che nella zona erano alla ricerca di fuggiaschi alleati. Ne era scaturito un conflitto a fuoco, con la cattura dei giovani e di diversi evasi. I prigionieri erano stati portati nel capoluogo e i ragazzi trovati armati erano stati riconosciuti come franchi tiratori, quindi passati per le armi. Questo episodio è stato uno dei primi in assoluto che ha visto coinvolti dei civili contro i nazifascisti.
Il fatto è da collegarsi quindi con la nascita del Teramano di formazioni armate di resistenti: infatti il 21 settembre in località Il Ceppo, nei pressi di Rocca Santa Maria si era radunato un nutrito gruppo di ex soldati, jugoslavi fuggiti dalla prigionia, civili politicizzati e non, che si proponevano di difendere Teramo e le zone vicine, al comando del capitano dei carabinieri Ettore Bianco. Il 25 un contingente di tedeschi si reca nella zona per catturare i partigiani, i quali in una battaglia durata circa tre ore uccidono una cinquantina di soldati. I tedeschi per rappresaglia giustiziano cinque ostaggi a Torricella Sicura. Quello del Ceppo è stato il primo scontro fra partigiani e tedeschi.
Nella regione nascono diversi gruppi partigiani, più o meno politicizzati, il più noto dei quali è la “Brigata Maiella” (o “Banda dei patrioti della Maiella”), nata il 5 dicembre 1943 col nome di “Corpo volontari della Maiella” per iniziativa di Domenico Troilo e dell’avvocato socialista Ettore Troilo (che non erano parenti) fra Gessopalena, Torricella e Casoli, quindi ai limiti della linea Gustav. La Brigata era apolitica ed era stata aggregata al V Corpo britannico dell’ottava armata, unitamente ai polacchi del famoso generale Anders.
Essa ha risalito la penisola arrivando a liberare Bologna il 21 aprile 1945, giungendo fino ad Asiago. È l’unico gruppo partigiano italiano decorato con medaglia d’oro al valor militare.
A Lanciano tra il 5 e il 6 ottobre scoppia una rivolta, determinata dalle azioni dei tedeschi, che avevano occupato la città il 12 settembre, lasciandosi andare a saccheggi e soprusi. Ne era scaturita una reazione di resistenza con sabotaggi ed altre azioni. Nel corso di una di queste il 5 ottobre era stato catturato, torturato, accecato e ucciso uno dei capi, Trentino La Barba. La rivolta è stata sedata dai tedeschi grazie all’arrivo di numerose truppe. Il bilancio dell’insurrezione è stato di 47 vittime tra ufficiali e militari di truppa tedeschi e 23 lancianesi: 11 partigiani uccisi durante il combattimento e 12 civili. Dopo la liberazione, avvenuta il 2 dicembre 1943, Lanciano è rimasta per altri sei mesi sulla linea del fronte.
La Linea Gustav, ben difesa, si rivela per gli Alleati (che l’avevano ribattezzata “Winter line”) un ostacolo difficilissimo, a volte insormontabile, rendendo oltremodo lenta ed ardua la risalita verso il nord. A questo contribuisce il maltempo con piogge continue che avevano gonfiato il fiume Sangro e impantanato l’area. Si pensi che solo il 25 novembre le truppe guidate dal generale Montgomery (aiutate da intensi bombardamenti) riescono a scavalcare il Sangro e a raggiungere Lanciano.
Si arriva dunque a scontri feroci, il più noto dei quali è la battaglia di Ortona, non a caso detta “La Stalingrado d’Italia”, tra il 20 e il 28 dicembre. Hitler dà grande importanza alla difesa di Ortona, arrivando a comandare che: «die Festung Ortona ist bis zum letzten Mann zu halten – la Fortezza Ortona deve essere difesa fino all’ultimo uomo», contro il parere di Kesserling, il quale non voleva sacrificarvi troppi uomini.
Invece le perdite sono state gravissime da ambo le parti.
Contestualmente con le battaglie, i tedeschi procedono con la tattica della “terra bruciata”, sia con stragi di civili, che con sfollamenti e distruzione delle località.
Il data base dell’Atlante delle stragi nazifasciste ha registrato per l’Abruzzo 903 vittime in 359 episodi.
Si tratta di un dato impressionante, poco noto, tanto da essere stato utilizzato come caso di studio quando l’Atlante è stato presentato.
Fra i tanti episodi sono tragicamente esemplificativi quelli avvenuti nell’Alto Sangro, lungo la Linea Gustav: il minamento di Roccaraso, fatta saltare dai tedeschi in fuga per rallentare l’avanzata nemica e l’eccidio di Limmari di Pietransieri, frazioncina a 5 km da Roccaraso.
Roccaraso era nota località turistica, che spesso aveva come ospiti i Savoia. Con 75.000 presenze medie annue risultava seconda solo a Cortina d’Ampezzo. Dopo l’8 settembre la linea ferroviaria e la strada, l’attuale s.s. 17, passaggio obbligato lungo l’Appennino, mostrano un flusso ininterrotto di persone: perlopiù convogli di soldati italiani allo sbando e famiglie che cercavano rifugio sperando di andare in zone più tranquille.
«Più là che Abruzzi» non ha lo stesso significato che gli aveva dato Boccaccio nel Decameron ad indicare un luogo remoto, ma significa la salvezza. Abbiamo visto però come tutta la zona sia invece estremamente pericolosa.
I primi nuclei di soldati tedeschi arrivano dopo il 13 settembre, i quali cominciano le operazioni per la costruzione della Gustav, che poteva contare nelle barriere naturali delle Mainarde, della Maiella, degli Altopiani Maggiori d’Abruzzo.
La vita e l’economia della zona vengono dunque stravolte. In particolare la pastorizia deve fornire il sostentamento delle truppe e della popolazione tedesca. Si requisiscono migliaia di capi, trasportati con i convogli ferroviari verso la Germania: non è più il momento di riecheggiare i versi di Gabriele D’Annunzio: “Settembre andiamo è tempo di migrare”.
Vengono quindi emanate direttive sempre più restrittive e repressive.
Il 4 novembre il colonnello von Glabenz, del Comando Militare tedesco 1017, con sede a L’Aquila, scrive al Prefetto: «Per la protezione della popolazione civile e per mettere al sicuro la proprietà della stessa contro gli attacchi aerei nemici e l’invasione nemica, vengono sgombrati parte della provincia di Chieti e la parte sud della provincia dell’Aquila. […] Il locale comandante delle truppe stabilisce anche come devono essere incolonnate le persone e quali strade debbono essere percorse per la ritirata verso nord». Il provvedimento interessa da 20.000 a 25.000 persone, che dovranno trovare alloggio in appositi campi, caserme vuoto come pure in case private in città o in campagna. Ogni tappa di questo esodo è di 20 km, con il rischio concreto di mitragliamenti da parte degli aerei alleati. I comuni devono provvedere ai mezzi di trasporto per quelli che sono impossibilitati a muoversi agevolmente.
Il 3 novembre inizia lo sfollamento. Alcune famiglie resistono nelle zone montane dell’Aremogna, ma l’inverno le obbliga ad andare via.
Gli anglo-americani avanzano, seppur molto faticosamente e a costo di gravi perdite. I tedeschi minano quindi Castel di Sangro tra il 7 e l’11 novembre, per ritirarsi risalendo la strada verso Roccaraso. Il 24 novembre gli alleati conquistano quota 1009 sopra Castel di Sangro, e i tedeschi si convincono che stia iniziando l’assalto al valico di Roccaraso. Quindi si dà il via alle operazioni di brillamento: in poco tempo il 98% dell’abitato viene ridotto in polvere.
Non tutti però vogliono abbandonare le loro case e quel poco che possiedono.
Gli abitanti di Pietransieri si rifugiano in quattro casolari nelle vicinanze, in località Limmari. Nella zona si verificano incidenti e scontri a fuoco, con fucilazioni sommarie che portano alla morte di una ventina di persone; vengono incendiate case, in una delle quali il 12 novembre muore una donna, impossibilitata a muoversi.
Verso le 8 del mattino del 21 novembre giunge una pattuglia con esplosivi, che si dirige verso uno dei casolari. I giovani e le donne riescono a prendere i bambini e a fuggire nella vicina boscaglia. I tedeschi entrano nella masseria ed uccidono cinque persone, anziane e malate, che non si possono muovere. Dopo di che i soldati raggiungono un secondo casolare, dove uccidono 15 persone; quindi vanno verso il terzo, sparando a chi incontrano e ammazzandovi 30 persone. Per ultimo arrivano al casolare D’Amico dove è concentrato il maggior numero di persone e dove si sono rifugiate anche altre che erano riuscite a fuggire.
Dopo aver nuovamente intimato la immediata evacuazione verso Sulmona, i tedeschi aprono il fuoco e fanno esplodere anche la mina che avevano portato a dorso di un mulo uccidendo tutti i presenti ad eccezione di due bambini: Virginia Macerelli e Flavio De Matteis, di sette anni, il quale però, gravemente ferito, muore qualche ora dopo. Solo alla prime luci dell’alba alcune persone che si erano salvate raggiungono il luogo della strage e scoprono che sotto il corpo della madre c’è ancora viva la piccola Virginia. Nell’eccidio muoiono 107 persone, alle quali si devono aggiungere le 18 morte nei giorni precedenti, quindi per un totale di 125, di cui 34 bambini sotto i 10 anni (fra i quali uno di un mese) e 60 donne. Come riportato nella scheda dell’Atlante delle stragi: «Secondo i più recenti studi, parrebbe accertato che la strage sia stata causata dal fatto che gli abitanti di Pietransieri non avessero ottemperato all’ordine di sfollamento verso Sulmona, rifugiandosi in una zona (Limmari) che, al contrario, era fisicamente più vicina alla linea del fronte. Lo scopo era quindi di liberare la “fascia di sicurezza” dalla presenza di estranei».
Terminata la guerra fu istituito un processo penale nel Tribunale di Sulmona contro alcuni abitanti di Pietransieri accusati di atti di sciacallaggio nei confronti delle vittime, terminato con condanne.
Questi sono due esempi di quanto è avvenuto, ma simili modalità sono state un continuum nella tattica di terra bruciata e di terrore volutamente attuata sia da truppe della Wehrmacht che da veterani delle battaglie più sanguinose (come quella di Montecassino) che da battaglioni appositamente adibiti allo scopo. E spesso non sono state estranee soffiate da parte di chi era allettato dalla promessa di taglie. Non sono però mancati episodi in cui alcuni soldati tedeschi hanno aiutato i partigiani. Sono stati registrati almeno 14 soldati della Wehrmacht che hanno disertato, passando alla Resistenza, mentre altri tre hanno passato informazioni riservate ai partigiani per scongiurarne la cattura.
Un ultimo rimarchevole aspetto dei drammatici momenti vissuti in Abruzzo è dato dalla nascita di una forma di resistenza spontanea, civile e solidaristica, che è consistita nel dividere il pane che non c’era, nell’ospitare gli sfollati, i fuggiaschi, le famiglie ebree, a rischio della propria vita.
Una resistenza umanitaria fatta a volte di piccoli ma significativi gesti, solo da poco studiata e valorizzata come merita. Tante sono le testimonianze emerse, che per lo più hanno visto coinvolte persone semplici, che hanno agito d’istinto, senza tornaconti. Molte di loro erano donne.
Per quanto riguarda i soldati alleati scappati dai campi di prigionia n.102 a L’Aquila, il n.91 ad Avezzano, il n.78 a Sulmona, il n. 21 a Chieti, lo storico William Simpson,nel suo A Vatican Lifeline. Allied Fugitives aided by the Italian Resistance, (Cooper, London 1995), tradotto e pubblicato a cura dell’associazione “Il Sentiero della Libertà/Freedom Trail” col titolo La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, ha evidenziato l’assistenza ricevuta: «Il fenomeno dell’assistenza spontanea era generalizzato in tutta la regione abruzzese, con punte più alte nelle province di L’Aquila, Chieti e Pescara. Sulla base di statistiche desumibili dai documenti conservati negli archivi nazionali di Washington, si può calcolare un coinvolgimento di decine di migliaia di persone nell’assistenza, sempre rischiosa, agli ex prigionieri alleati fuggiti dai campi di concentramento, dopo l’8 settembre. In rapporto alla popolazione globale delle zone di montagna e di collina, censita nel 1936, la partecipazione si aggirerebbe intorno al 4-5%, cifra tutt’altro che trascurabile, se si pensa che i fuggiaschi alleati di passaggio e di stanza in Abruzzo non erano probabilmente più di 10.000. Altri elementi non quantitativi fanno pensare che la disponibilità a prestare tale assistenza fosse ancora più diffusa».
Annina Santomarrone è una sarta di Roio Piano, a pochi kilometri dall’Aquila. Col fratello Luigi dà assistenza a un militare inglese; in seguito a una delazione i due vengono arrestati, processati e deportati. Luigi viene internato a Dachau (vicino Monaco di Baviera) il 28 aprile del 1944 (numero di matricola 67249) e lì muore il 7 febbraio del 1945. Annina invece va a Ravensbrück (nel Brandeburgo, a circa 90 km a nord di Berlino), il più grande campo di concentramento femminile tedesco (numero di matricola 83844), dove muore in data incerta. Entrambi erano stati schedati come deportati politici. Ebbene Annina dichiara: «Non l’ho aiutato perché era inglese ma perché sono cristiana e anche loro sono cristiani». Ai fratelli Santomarrone sono state dedicate due “pietre d’inciampo”.
Michele Del Greco, è un pastore di Anversa degli Abruzzi, che dà ospitalità e da mangiare a numerosi ex-prigionieri, e per questo viene arrestato il 22 novembre 1943, processato e condannato a morte il 27, fucilato il 22 dicembre. Dalla lettera alla moglie e dalla testimonianza del parroco, don Vittorio D’Orazio, che lo aveva confessato prima della fucilazione, nel carcere di Badia di Sulmona, emerge la stessa motivazione: «Sa perché mi ritrovo in questa situazione? Perché ho fatto quello che mi avete insegnato: dar da mangiare agli affamati».
Don Gaetano Tantalo (1905 – 1947) è il parroco di San Pietro Apostolo a Tagliacozzo. Già intorno al 1940 aveva dato ospitalità a una famiglia di ebrei fuggita da Roma per le leggi razziali. Nel 1943, invece, si offre come ostaggio volontario ai tedeschi che volevano fare una retata per punire gli abitanti di Villavallelonga accusati di far parte della resistenza.
Federico Costantini (1914 – 1977) assieme ad altri coraggiosi capifamiglia del piccolo borgo montano di Ciampichetti, sopra Farindola, in provincia di Pescara, dà rifugio e sostegno a un gruppo di soldati inglesi fuggiti dal campo di prigionia di Servigliano, nel Fermano, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. La sua famiglia accoglie uno di questi soldati, Jock (nome di battaglia di H.A. Barson). Questo gesto di umanità viene in seguito riconosciuto dalle più alte sfere militari, che inviano una lettera di ringraziamento e un assegno di dieci sterline, che la famiglia Costantini rifiuta dimostrando così la genuinità e l’altruismo dei loro intenti.
Alessandro Cofini (1911 – 2003) a Forme (frazione di Massa d’Albe- AQ) per circa due mesi accoglie e protegge la famiglia Nathan, anglo – italiani di religione ebraica.
Joe (figlio di Ernesto, sindaco di Roma dal 1907 al 1913) la moglie e le tre figlie vivono nascosti in casa durante l’occupazione tedesca della zona dall’ottobre 1943. Erano state requisite diverse abitazioni, e i tedeschi avrebbero voluto occupare proprio la casa di Alessandro Cofini. Solo la determinazione di quest’ultimo (con l’aiuto degli altri fratelli Armando, Enrico e Giuseppina e della matrigna Berardina), fa sì che i Nathan non venganoo scoperti (adducendo la scusa che l’abitazione già ospitava molti parenti rifugiati). Dopo il fermo diniego da parte dei Cofini a farli entrare in casa, la maggior parte degli ufficiali facenti parte della guarnigione tedesca, si stabiliscono proprio nella casa di fronte.
La resistenza umanitaria di Alessandro Cofini si è manifestata anche nei confronti dei soldati inglesi ed australiani che, nascosti alle pendici del monte Velino, (sopra l’abitato di Forme) erano sbandati o fuggiti dopo i bombardamenti dei campi di detenzione di Avezzano.
Molti episodi di resistenza umanitaria hanno avuto come scenario il cosiddetto “Sentiero della libertà”: così è stata definita la via di fuga di migliaia di prigionieri alleati e di giovani italiani che lottavano per la liberazione d’Italia, divisa dalla Linea Gustav. Il percorso, di circa 60 km partiva idealmente dal campo 78 di Fonte d’Amore, nei pressi di Sulmona, per giungere fino a Casoli. È stato percorso il 24 marzo 1944 anche da un giovane ufficiale dell’esercito italiano, Carlo Azeglio Ciampi, che ha ricordato la traversata nel suo diario. Il “sentiero della libertà” è diventato un trekking al quale partecipano ogni anno centinaia di studenti e altre persone da tutto il mondo, diverse delle quali sono eredi dei soldati che grazie all’aiuto dei locali hanno potuto raggiungere la salvezza.
Il presidente Ciampi (come anche i presidenti Napolitano e Mattarella) ha ribadito più volte il carattere di vasto movimento di popolo che ha coinvolto i sentimenti e la solidarietà della maggioranza degli italiani, civili e militari.
Questi molto sinteticamente sono solo alcuni dei fatti che hanno visto coinvolta la regione abruzzese in conseguenza dell’8 settembre 1943, che ha subito in modo massiccio e diffuso pesanti bombardamenti, battaglie, stragi, immani sacrifici; con Chieti di fatto dichiarata “città aperta” alla stregua di Roma, di Firenze, di Parigi, di Belgrado.
Come scritto molti di questi fatti sono tuttora ignoti da parte di tanti.
L’Abruzzo è una regione per la quale a volte la definizione di “forte e gentile” è andata un po’ stretta, ma che in questo caso, sottoposta alla durezza della guerra, calza ancora con giustezza. L’autore, Primo Levi (1853-1917), giornalista ed editore, aveva usato questa espressione come titolo ad una sua opera del 1883 , una sorta di “appunti di viaggio” in terra d’Abruzzo: «V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: è la parola Forza.
Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo. V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva
eleganza, una parola che vale a comprendere, definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà…
è la parola Gentilezza.
Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, dico io: Abruzzo Forte e Gentile. Visto e conosciuto».
Nella memoria collettiva l’8 settembre è divenuto uno dei momenti più tragici della storia nazionale.
Alcuni (come Ernesto Galli Della Loggia) vi hanno visto la morte della patria. Ma quale patria? Sicuramente è la fine di un mondo e di quella che era stata la dimostrazione del degrado morale delle alte gerarchie, con una zona grigia di italiani, come mostrato nel film Tutti a casa di Comencini, espressione di una società spoliticizzata e appiattita da venti anni di fascismo, che aveva permeato la vita quotidiana di retorica, in cui i luoghi di espressione democratica come la piazza, la scuola, l’informazione, erano stati asserviti alla ideologia. Però, come ha affermato Piero Pieri: «Se l’improvviso tracollo dell’8-9 settembre segnava la profondità del baratro in cui la nazione era precipitata, esso era pure il punto di partenza di quella meravigliosa affermazione delle recondite virtù di nostra gente che si disse la Resistenza», segnando,anche a costo di una guerra civile, la nascita di una nuova idea di Patria, democratica, pur se a volte contraddittoria. Questo ha fatto sì che l’Italia si sia potuta dare una Costituzione autonomamente, non come avvenuto per la Germania e il Giappone.
Certamente molte sono state le manchevolezze nelle fonti, le contraddizioni, ma come ha affermato Paolo Ceccoli: «Proprio la natura controversa del fenomeno, della sua interpretazione e dell’interpretazione delle sue conseguenze può avere un grande valore didattico».
Interpretare l’8 settembre, quanto lo ha preceduto e le sue conseguenze, dovrebbe essere esercizio di educazione per le nuove generazioni, che spesso ignorano totalmente quanto avvenuto. Per tanti è stato il momento delle scelte: di impegnarsi o no, di stare da una parte o dall’altra. Occorre quindi un coinvolgimento anche nella sfera affettiva e etica, ponendo la domanda: e tu cosa avresti fatto in quel contesto? Domanda difficile, con una risposta ancora più ardua, essendo ben diversi i tempi, i comportamenti, il grado di impegno. Domanda però ancora più necessaria, visto che l’attualità ci fa vedere quotidianamente come siamo posti di fronte a un rovesciamento di valori e a un riemergere di pulsioni antidemocratiche e di odio che si pensava fossero state sepolte.
Utilizziamo le parole memoria e ricordo per indicare particolari giornate del nostro calendario civile. Se però non si fa educazione alla memoria queste date si risolvono in vuoti e ripetitivi esercizi di retorica. Le stesse parole vengono adattate ad uso e consumo di una parte a discapito dell’altra. Occorre dunque fare operazione di educazione alla memoria, partendo dalla conoscenza di quanto avvenuto nei nostri territori, perché è bene sempre tenere a mente quanto ha scritto Primo Levi in Se questo è un uomo: «Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre».