Siamo quello che diciamo.
Diventiamo quello che diciamo e diventiamo quello che non diciamo.
Siamo quello con cui veniamo definiti ed etichettati.
Vale per tutti, in modo particolare per noi donne.
Il linguaggio è un potentissimo strumento di parità di genere.
Stereotipi, bias, preconcetti, definizioni limitanti diventano gabbie davvero resistenti.
È fondamentale tutelarci e usare correttamente la meravigliosa lingua che ci rende così unici.
Il maschile inclusivo è oramai routine. Diciamo più spesso “tutti gli uomini” piuttosto che dire “umanità”.
L’asimmetria semantica è pericolosa e crea disparità: succede quando il maschile e il femminile della medesima parola hanno significati e connotazioni diverse.
L’uso del maschile come forma neutra per riferirsi a gruppi misti o a professioni è una forma di discriminazione delle donne: ci fa percepire che certi ruoli siano maschili.
Il linguaggio ha un notevole impatto sulla percezione sociale e culturale. Quando è impreciso o scorretto crea discriminazioni e danni di ogni genere. Ad ogni genere.
Il cambiamento verso un linguaggio inclusivo è un passo importante verso una maggiore equità sociale.
Siamo tutti diversi e la nostra brava lingua madre riesce a descriverci tutti. Soprattutto sa cambiare, sa evolvere. Anche più velocemente di noi.
Lo hanno dimostrato le brillanti relatrici dell’evento dedicato a questo tema, organizzato da Lions Club Valdobbiadene: Ilaria Trinca e Giorgia Zanin; rispettivamente avvocata e consulente specializzate in Gender Equality Management. Unitamente a Gloria Paulon, prima cittadina di Segusino e imprenditrice alla guida di Parajumpers.
UN QUADRO PREOCCUPANTE:
Secondo il Global Gender Gap Report 2024, l’Italia è all’87° posto, perdendo 6 posizioni.
Andiamo meglio nel tennis, al momento.
Il tasso di occupazione femminile in Italia? Il più basso in Europa (53,5%, 30% part time).
Le donne, se lavorano, prendono meno soldi e raramente rivestono ruoli apicali o di potere.
Però, primeggiano in una cosa: i lavori di cura.
Tradotto: una donna – in media – si dedica quasi 5 ore al giorno a faccende domestiche, cura dei figli, commissioni e altre incombenze extraprofessionali. L’uomo se la cava con 1 ora e 50 minuti.
Sono dati INPS e Banca d’Italia, mica solo lamentele di mamme, mogli e colleghe.
In più, spesso non meritiamo di essere definite nel modo giusto. Che fatica usare il femminile.
Non serve essere un esperto di filosofia o semiotica per intuire una conseguenza: ciò che non ha nome, non esiste.
Pensateci:
molti non conoscono l’importanza dei fondamenti di un ruolo femminile, e il corretto modo di descriverlo.
Oppure, non lo si usa per cacofonia…perché “suona male”.
Stride così tanto chiamare avvocata una professionista che presta assistenza legale?
Sapere che una assessora sta occupandosi del vostro comune vi urta così tanto?
Una carenza lessicale, un vuoto culturale, un cratere sociale.
Personalmente, a me suona peggio il continuo pigro ritornello che vede come scontato il maschile.
Parafrasando Chelsea Bieker, la musica è sempre la stessa:
il mondo non è fatto per le donne.
Ma le donne hanno fatto il mondo.
Che dite, proviamo a cambiare?
Le parole contano. Le donne, anche.