In una fase nella quale il dibattito pubblico è alle prese con una riforma della giustizia che alcuni definirebbero epocale, ma liberamente valutabile dai cittadini anche in base alla lista dei suoi più appassionati sostenitori, vale la pena mettere a fuoco un paio di questioni che stanno trasformando profondamente la relazione tra diritto e società.
Restando fermo un punto, secondo l’autore di questo breve intervento, e cioè che la malattia che uccide il nostro sistema giudiziario è l’interminabile durata dei processi che riduce a illusione quello che nella Costituzione è una garanzia fondamentale.
La prima riguarda l’esperienza che privati, famiglie e imprese fanno dei cosiddetti reati dei colletti bianchi, quelli più sfuggenti, in modo particolare la corruzione, rispetto ai quali vengono normalmente sottovalutati i meccanismi di percezione sociale e di condizionamento culturale.
A questo proposito il 6 giugno l’Istat ha organizzato un convegno dedicato alla misurazione di questo fenomeno nell’ambito dello Statistical Framework delle Nazioni Unite sugli indicatori di rischio – circa un centinaio – e sulla risposta dello Stato alle diverse forme di reato riportate dalla Convenzione Internazionale per la lotta alla corruzione (United Nations Convention against Corruption), con la partecipazione di vari attori istituzionali interessati alla sua implementazione, tra cui ANAC, Scuola Nazionale dell’Amministrazione e Corte di Cassazione. Da una prima, rapida interpretazione dei dati rilevati nel corso del 2023, emerge che l’esperienza di chi ha assistito, tollerato o subito eventi corruttivi è intensamente associata alle subculture locali e ai rispettivi processi di riprovazione o accettazione, dinanzi ai quali si reagisce più per istinto che per coscienza, di fatto minimizzandone la portata a prescindere dagli aspetti tecnici e giuridici e dalle conseguenze per le persone coinvolte.
La seconda ha a che fare con la figura umana e professionale dei giudici, cui la suddetta riforma dedica ampia giurisprudenza. Il postulato per molti irrinunciabile è che l’atto del giudicare nelle aule sia guidato da un principio di assoluta razionalità, «Ma le scienze cognitive e le neuroscienze hanno dimostrato che le emozioni sono componenti ineliminabili e determinanti delle decisioni e che possono significativamente influenzare anche soggetti esperti come gli operatori di giustizia», sostengono Forza, Menegon e Rumiati in un bel libro pubblicato alcuni anni fa (Il giudice emotivo. La decisione tra ragione ed emozione, Il Mulino, 2017).
In entrambe le circostanze (percepire e giudicare), la dimensione intuitiva – pregiudiziale in senso etimologico – assume un ruolo complementare a quella logica per cui anche i giudici, come tutti gli umani, possono imbattersi in numerose insidie a partire dalla formazione della prova fino alla decisione finale.
È anche bene considerare che nel corso dell’iter processuale penale entrano in gioco diversi attori giudicanti (PM, GIP, GUP, riesame, vari gradi di giudizio, eventuale revisione), portatori di tecnicalità e sensibilità non necessariamente convergenti; tuttavia, la trappola che andrebbe evitata è quella di una eccessiva fiducia nelle proprie competenze e abilità, quella sorta di autoinganno che gli psicologi sociali Dunning e Kruger (1999) collegano al pregiudizio cognitivo della propria superiorità. L’intuizione può rivelarsi efficace, ma anche generare distorsioni, e la giustizia non è certamente «quello che il giudice ha mangiato a colazione»: la conoscenza, nelle aule di giustizia come in ogni altro ambito, è una continua ricerca dell’errore, statisticamente non azzerabile, lungo una sequenza di ipotesi pur sempre falsificabili.
Altrimenti si rischia la fine di quel tacchino statunitense che si convinse di ricevere il cibo tutti i giorni alle 9 del mattino, finché venne Natale.