In Social, non, veritas.

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Al giorno d’oggi, è più conveniente avere un profilo virtuale piuttosto che un basso profilo. L’iscrizione ad un social media, infatti, è di gran lunga nella media. E, scusate il gioco di parole, talvolta sembra più qualificante…
Di una certa licenza, media. Perché la navigazione su queste piattaforme, garantisce la libertà insindacabile di esprimere opinioni all’insegna della tuttologia. Senza se, e senza ma. E senza averne chissà quale facoltà. L’internettologo egocentrico è l’animale più diffuso nello zoo del web, e comprende innumerevoli sottospecie in continua riproduzione. Delle quali, tuttavia, io auspico volentieri l’estinzione. Il poeta delle banalità, per citarne una. Ovvero, colui che trae la sua massima ispirazione dalle pagine aforistiche di facebook, spacciando come versi di altissimo calibro intellettuale, frasi di una scontatezza aberrante. Ma a tal proposito, sarà davvero meglio vivere un giorno da leone (da tastiera) che cento da pecora…nera? Nel dubbio, onde evitare di perdervi tra la mediocrità legalizzata di questa selva oscura, lasciate ogni speranza voi ch’ entrate. Le chiacchiere, invece, stanno a zero perché rimpiazzate di gran lunga dalle chat. Ma meglio di Renato, Zero, nessun altro può offrirci idea migliore di cosa significhi vendere quell’attimo di vanità. Giacche’ per tante persone, il social è lo strumento ideale per auto compiacersi e decantare le loro (presunte) qualità. Per alcune, poi, è quasi tutto. Un tutto, però, spesso fondato sul niente. Parrebbe dunque il caso di dover mettere in discussione un principio antichissimo, quell’”ex nihilo nihil fit” espresso dal poeta Lucrezio e riformulato da molti altri filosofi, poiché dal nulla, e sul nulla, in diversi hanno costruito una carriera. Una redditizia ed edificante carriera, che spesso affonda le sue radici nell’apparenza e in ciò che io detesto di più: l’ostentazione. Chi mi ama, e non mi ama, basta che mi segua: non esiste un limite per fare indigestione di followers. E non importa se si vende un’altra identità , a caro e non a buon prezzo, si sa, perché tanto c’è un infelice ovunque vai, ci ricorda il cantautore romano. Figuriamoci poi in un mondo come quello digitale, in cui l’infelicità più esasperante è di casa quanto un tavolo in cucina. E se anch’io volessi allargare il giro dei clienti miei, forse, potrei pubblicizzarmi così:

Seguimi, io sono la notte.

Perché mi chiamo Leyla, ed il mio nome in arabo ha questo significato. Ma è meglio per me cambiare zona e itinerario, il mio indirizzo… Non può essere l’illusorietà. E quindi venghino signori (e signore) venghino: qui si fanno grandi affari. Tranne quelli propri. E c’è poco da fare: ognuno è troppo ammaliato dallo scintillio della mercificazione altrui. È sufficiente un like per alimentare il successo dell’influencer di turno. Un semplice click o una rapida condivisione. Che la sottoscritta, però, stenta a condividere. Perché il motore di ricerca della nostra felicità non può essere Google, e chi rimpiazza la vita reale con i social, si auto condanna allo svolgimento di lavori social-mente inutili. Ma vale la pena confinarsi agli arresti domiciliari del proprio smartphone per rincorrere il sogno di un bi-sogno non necessario?E siamo così convinti di ottenere da questi “influenzatori” ciò che il mondo reale… distratto non ci dà?

Chissà.

Ma a me, l’influencer spesso mi è… ininfluente. E, a proposito d’influenze pluristagionali, la  febbre d’amore ai tempi del social è altrettanto diffusa. Colpisce per di più uomini non vaccinati da una malattia difficile da curare: la solitudine. Un isolamento che si accompagna ad una tremenda paura d’ invecchiare, e che trova nell’idealizzazione di un’estranea qualunque il porto sicuro in cui far approdare la nave dei suoi aneliti d’amore. Uno yacht da sogno che può ahimè rivelarsi una zattera logorata ed il cui naufragio è spesso assicurato.

A volte un uomo è solo perche’ ha strani tarli, cantavano i Pooh. E la ricerca estenuante di un’anima gemella possibilmente giovane, appariscente e ad alto tasso d’instagrammabilita’, è un tarlo di difficile rimozione dalla mente di questi aspiranti partner.

Ed anche se sarà la prima che incontri su Facebook, tu la coprirai d’oro per un like mai dato e per un post nuovo .

Che De Andrè mi perdoni, ma dalla canzone dell’amore perduto a quella della richiesta d’amicizia rifiutata, è un attimo: addio a lettere passionali e corteggiamenti romantici, qui si flirta in direct chattando sul water. La stessa toilette che spesso troviamo come sfondo in diversi autoscatti: quelli realizzati da tante ragazze (e, purtroppo, anche ragazzine) sotto cui mi è capitato di leggere un rivoltante mélange di commenti. Da una parte, le avance di suini attempati (e spesso sposati). Dall’altra, i pavoneggi di madri ignare della propria debacle educativa.

Che brutt’ epoque .

È una situazione che lascia un ripugnante amaro in bocca, seppure sia Zucchero a ricordarci che in questi casi scende la tristezza in fondo al cuore.

Ma come vorrei…

Si tornasse a vivere prendendo per mano le nostre emozioni senza la barriera di uno schermo.

E senza correre il rischio di comprare desideri e speranze in confezioni spray . Perché nessuno mi toglie dalla testa questo pensiero: i social non sono la chiave dei nostri problemi , e nemmeno guariscono i mali .

E mala tempora currunt per i followers della realtà.

Per fortuna, però, questa volta a salvarci è un altro filosofo, Eraclito, con il suo panta rei.

Tutto passa, e scorre come le storie dei social, ma con una differenza sostanziale: la vita, quella vera, è tutta un’altra storia.