Immanuel Kant e la legge morale insita nell’uomo

di


,

La religione per il filosofo tedesco Immanuel Kant presenta un legame inscindibile con il modo dei fini ultimi, di cui realizza, sempre nel segno della speranza, la necessità della dialettica della vita come fine morale. Come è stato ricordato più volte da Wolfhart Pannenberg, il pensiero kantiano è da considerare l’elemento di origine della storia della problematica teologica evangelica del nostro tempo, se pure in modo dubitativo (W. Pannenberg, Storia e problemi della teologia evangelica contemporanea in Germania. Da Schleiermacher fino a Barth e Tillich, Brescia, Ed. Queriniana, 2000). Basti pensare a quanto la filosofia tedesca di derivazione kantiana pesò sul pensiero britannico. Il pensiero britannico attinse dalla filosofia tedesca, in primis poiché si volle allontanare dagli estremismi del razionalismo illuministico, optando per una visione antropologica più “vitale” della soggettività, che ebbe in Inghilterra una forte ricaduta filosofica. Sulla misura con cui il pensiero teologico tedesco influenzò quello degli altri stati europei, ci sovviene in aiuto quanto detto da Karl Barth. Secondo il teologo tedesco il contributo fondamentale del pensiero teologico tedesco del XIX secolo consiste nell’avere fecondato, nei diversi contesti nazionali europei, durante il XVIII secolo, una nuova concezione dell’antropologia teologica in senso soggettivistico, nel senso teologico introdotto proprio dalla filosofia kantiana, la quale ha portato a sviluppare durante il XVIII secolo in tutta l’Europa una concezione complessiva sull’ “uomo” e la “ragione”. È quel fine morale insito nell’io umano che corrisponde a un disegno divino e che andrà a permeare anche la letteratura, un esempio di ciò è la ricerca poetica e morale di Manzoni. L’intellettuale moderno è ora interprete di una cultura non più concepibile unitariamente, ma caratterizzata da una o più fratture, kantianamente parlando. La realtà ora si suddivide in: fenomenica, cioè quella conoscibile e manovrabile solo dalla scienza, e quella noumenica, alla quale si può accedere solo mediante la fantasia e il sentimento. Dunque, l’intellettuale moderno, che è anche poeta, perciò dotato di sentimento ed immaginazione, volendo utilizzare queste sue facoltà non comuni a tutti gli intellettuali, si trova ad interrogare l’assoluto, che però può essere interrogato solo attraverso una ricerca bifronte, fenomenica e noumenica. Per comprendere ciò è però fondamentale il distinguo tra fenomeno e noumeno kantiano. Il fenomeno, in estrema sintesi, è l’oggetto della conoscenza, ciò che appare, mentre il noumeno è l’essenza delle cose, la cosa così com’è, non si può avere una conoscenza reale della cosa in sé, in quanto è formato solo dalla forma, nono presuppone la materia. Quindi Kant comincia con lo stabilire una distinzione tra mondo sensibile (empirista), ed un mondo intellegibile (razionalista). Il primo è dovuto alla passività del soggetto ed ha per oggetto il fenomeno; il secondo ha per oggetto la cosa così com’è, il noumeno. La conoscenza fenomenica è l’unica conoscenza sicura, infatti il nostro intelletto non può mai oltrepassare i limiti della sensibilità, perché non è dotato di facoltà intuitiva (propria di un intelletto superiore a quello umano) e perché da questa soltanto riceve il contenuto della conoscenza. Se l’intelletto da solo non può spingersi oltre il fenomeno e quindi conoscere a priori un oggetto, Kant si domanda se sia possibile e in che modo conoscere il noumeno. A tal proposito il Filosofo fornisce due definizioni di noumeno:
in senso negativo → è la cosa in sé intesa in modo separato dal nostro modo di intuirla (ciò che non può essere conosciuto)
in senso positivo → è l’oggetto di una intuizione intellettiva
Non è possibile conoscere positivamente il noumeno perché l’intuizione intellettiva non fa parte della nostra facoltà conoscitiva. Perciò Kant afferma che il noumeno è un concetto problematico, nel senso che non contiene contraddizioni e in quanto tale lo possiamo pensare, ma non lo possiamo conoscere.
Manzoni incarna perfettamente tale tipologia di nuovo intellettuale, costantemente in bilico su questa ricerca bifronte (G. Pirretti, Noumeno e fenomeno; ovvero, Il vero pericolo del momento: dedicato ai giovani, Milano, La frusta politica, 1961, p. 2). Parlando in questi termini la poesia può essere intesa soltanto come un mezzo d’indagine che conduce all’assoluto. Bisogna però chiedersi se questa doppiezza investigativa, ragione e sentimento, logica e fantasia, possa generare nel poeta un’inquietudine. Il discrimine crociano tra Leopardi e Manzoni risiede proprio nel fatto che, quest’ultimo pur essendo uomo di fede, si trova costretto alla ricerca dell’assoluto, facendo presupporre che la fede non lo possegga. La conclusione, come rivelato anche dalla critica successiva, non può dirsi esatta, poiché Manzoni da uomo religioso possiede l’assoluto e tutta la sua opera è una manifestazione di ciò. È proprio tale possesso a rivelarne la bellezza. Tale ricerca sposa pienamente l’ideale romantico di Fichte, Schlegel e Novalis.
Un’altra voce di rilievo messa in campo in tale prospettiva della diffusione della idea teologica kantiana è quella di Hans Blumenberg, il quale aderisce, in sostanza, all’orizzonte storico-teologico di Barth, andando, però, a precisare che tali ragioni non andrebbero ricercate solo in ambito teologico, ma anche storico-politico (H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, Genova, Ed. Marietti, 1992. Hans Blumenberg (1920-1996)). Alcune di tali ragioni sarebbero riconducibili alla Riforma che, in quanto tale, sarebbe peraltro piuttosto marginale, mentre nella concezione barthiana verrebbe a costituire il riferimento antagonista del nuovo indirizzo nei confronti dell’uomo alla continua ricerca dell’assoluto.
L’efficienza della lettura kantiana sta però nell’aver giustificato quel giusto agire umano, in una corrispondenza tra moralità terrena (legge che è in noi) e dinamiche/leggi divine. Di tale cerniera tra legge e morale, che fa di quella una speranza per questa, in modo tale che la tesi con cui abbiamo aperto il saggio può anche essere espressa in questi termini: la religione è speranza per la vita morale, «Kant parla nella Vorrede del 1793 al Die Religion innerhalb der Grenzen der blossen Vernunft, ossia nel momento in cui intende giustificare il sorgere della sua trattazione religiosa, vera filosofia della religione, quando è già compiutamente in piedi la vita morale; e ne tratta in modo da riassumere il suo pensiero nell’espressione latina che pensa la religione di fronte alla morale come finis in consequentiam venies» (I. Mancini, Kant e la teologia, Città Castello, Tappini, 1975, pp. 94-95). Queste le parole di uno dei maggiori studiosi kantiani sul panorama europeo per descrivere il passaggio cruciale nell’indagine kantiana dalla filosofia alla teologia. Kant vuole chiarire il senso della frase latina, cioè il senso del nesso che passa tra religione e mondo dei fini, o meglio come la religione realizza il mondo dei fini. La vita morale risulta essere, in quest’ottica architettonico-sistemica, l’unico punto di contatto tra mondo dei fini e luce divina.