Stamattina, accompagnando le bimbe a scuola, in un impeto vintage ho fatto ascoltare loro un brano de “Le Orme”: “Sguardo verso il cielo”.
Pezzo eccellente, contenuto in un altrettanto mitico album del 1971: “Collage”.
Si tratta di una riflessione, forse un poco ingenua, sul fuggire dalla realtà deumanizzante della caotica città.
Bisognava alzare lo sguardo e percepire, guardando il cielo, una realtà trascendente, che riempiva il cuore e dava senso al tutto.
Osservate mai il cielo?
Possiamo studiarlo per capire il meteo oppure per ammirare un tramonto oppure, magari, per salire di livello e rivolgerci a “qualcuno lassù”.
Cielo: “lo spazio siderale percepibile dalla Terra (da Wikipedia)”; il significato del termine è chiaro.
Un tempo, però, la questione era più complessa, soprattutto nell’Antico Egitto.
Questa meravigliosa civiltà infatti ci ha lasciato molti testi scritti ed inscritti su papiri, monumenti, templi, la cui comprensione non è affatto semplice… ma è davvero molto affascinante.
Un esempio: per la nostra parola “cielo”, nell’imponente “Dizionario della lingua egiziana” di Erman e Grapow, sono indicati trentasette (sì, 37!) termini diversi, le cui interpretazioni e sfumature sono lasciate al traduttore che se ne serve attraverso la sua sensibilità, la sua esperienza e le sue conoscenze.
La dea Nut, femminile, (mentre per noi cielo è maschile, strani ribaltamenti che torneranno e che già nel V sec. a.C. facevano dire allo storico greco Erodoto di quanto in Egitto tutto fosse all’incontrario) è sicuramente la più nota tra le divinità riferite al cielo. Essa “E’ ” il cielo nel modo in cui lo percepiscono gli occhi, ad esempio attraversata dal Sole, Sole che è Kheper al mattino, Ra a mezzodì e Atum alla sera, a seconda della sua “funzione”.
Cominciamo già ad intravedere il problema o i problemi.
Come spiegano molto bene Giorgio De Santillana/Hertha Von Dechen nel loro fondamentale “Il Mulino di Amleto” (Gli Adelphi) i problemi sono legati alla nostra difficoltà di comprendere il mondo antico ed arcaico.
Il primo è dato dalle traduzioni dei testi; considerati i preconcetti che abbiamo verso popoli che pensiamo “primitivi” in quanto distanti da noi nel tempo e nei modi di pensare la vita ed il mondo che li circonda; non consideriamo possano essere vissuti – oltre diecimila anni fa – geni al pari di Galileo o Eisntein.
Il secondo problema è dato dalla struttura stessa della lingua. Una lingua che contiene trentasette modi per definire “cielo” è una lingua precisa e precisione nel linguaggio significa precisione nel pensiero.
“Dire e fare Maat”, cioè riprodurre sulla Terra l’armonia, l’ordine, il ritmo del cosmo era la loro ossessiva preoccupazione.
Da cosa si misura quindi la ricchezza di una civiltà?
E noi, siamo ricchi o poveri?