Criminalità femminile

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Indipendentemente dal periodo storico o dal contesto socioculturale, i tassi di criminalità femminile sono sempre stati inferiori rispetto a quelli maschili. Le donne costituiscono inoltre una minoranza in quasi tutte le tipologie di reato.

Questo fenomeno è noto come il problema della proporzionalità.

Dalle statistiche ufficiali risulta che i reati commessi dalle donne siano per lo più comuni ma lievi, o legati alla sfera sessuale, in particolare alla prostituzione.

La loro condizione di soggetti storicamente imperfetti, che operano principalmente nella sfera privata e intrattengono rapporti privilegiati con la natura, li confina a un ambito così ristretto che anche la devianza viene percepita come un atto individuale, di scarsa risonanza sociale, consumato nel privato e gestito sottovoce. In realtà il quadro statistico che mostra tassi di criminalità femminile inferiori a quelli maschili presenta diverse problematiche legate alla costruzione delle statistiche criminali.

Le pratiche di rilevazione, infatti, variano nei diversi territori e cambiano nel tempo, i dati sono spesso forniti con ritardo e le continue modifiche nei sistemi di rilevazione e classificazione rendono difficili i confronti.

La registrazione di un evento nelle statistiche criminali è il risultato di una serie di processi sociali e psicologici e , in primis, l’atto deve essere percepito come criminale dalla vittima e legalmente definito come tale. La decisione di denunciarlo è influenzata da vari fattori di natura stereotipata e pregiudizievole quali la banalizzazione del crimine, la convinzione che la polizia non possa fare nulla, l’imbarazzo, la paura o la pigrizia. Non da sottovalutare il fatto che, l’iscrizione come delitto, è soggetta al
potere discrezionale degli agenti di controllo, che possono re-definirlo. Tutti questi passaggi comportano una perdita, “ wastage element”, che contribuisce a formare ciò che è noto come il numero oscuro della devianza.

Il modo in cui le statistiche ufficiali, che rappresentano il prodotto finale di procedimenti interpretativi all’interno di un processo criminale, possono essere influenzate dall’effetto di un duplice modello di moralità, quella del singolo e quella corrispondente a un ordine di natura sociale. È vero, tuttavia, che la scarsa visibilità sociale dei fenomeni di devianza femminile è spesso dovuta a meccanismi privati e sociali che tamponano, reprimono e talvolta occultano le espressioni di devianza primaria, anche prima che queste assumano un chiaro significato di devianza.

Considerare la sfera privata e quotidiana può essere un modo efficace per acquisire una maggiore conoscenza della reale entità della criminalità e della devianza femminile, poiché è proprio in questo ambito che le donne sono prevalentemente confinate. Nonostante gli uomini partecipino attraversando processi di socializzazione primaria, si trovano a trascorrere la parte più significativa della loro vita al di fuori del contesto privato, “della casa”, mentre ancor oggi, alcune donne ne rimangono definite lungo tutto il corso della loro esistenza.

Di conseguenza, repressione, violenza e devianza vengono definite, riconosciute e gestite all’interno di questa sfera. Un’altra evidenza è rappresentata dagli stereotipi sui ruoli sociali femminili e sui comportamenti considerati appropriati per le donne; ciò comporta il fatto che gli operatori del controllo sociale risultino essere più tolleranti verso comportamenti criminali o devianti che rientrano nella natura femminile, ma non lo siano affatto quando si confrontano con donne che hanno agito in modo divergente dalla “natura femminile”.

Ad esempio le donne sono trattate più severamente per reati di natura sessuale, per i quali sono maggiormente esposte all’affidamento ai servizi e all’internamento.

In definitiva, i dati spiegano più i comportamenti delle istituzioni che quelli delle donne.
Un’ultima questione riguarda i tassi di criminalità femminile, che sembrano in aumento in diversi Paesi.

Ci si chiede se le donne stiano effettivamente commettendo più reati oppure se sia semplicemente in diminuzione il “numero oscuro”, come conseguenza dei cambiamenti sociali relativi ai ruoli maschili e femminili. Per rispondere è essenziale considerare gli strumenti utilizzati per la misurazione: se in passato si faceva affidamento esclusivamente sulle statistiche ufficiali, recentemente si sono diffusi anche altri
strumenti come i questionari self-report.

Dalle statistiche ufficiali non emerge alcun cambiamento particolare rispetto al passato.
È importante sottolineare anche il ruolo dei media nella spettacolarizzazione della crescita della criminalità femminile, soprattutto dei comportamenti violenti delle adolescenti.

Quello che rende visibili ed eclatanti gli atti violenti commessi dalle ragazze non sono gli atti stessi, ma il fatto che siano perpetrati da soggetti “insospettabili”, generalmente considerati non violenti, non aggressivi, remissivi e rispettosi per natura.

Il problema della sensazionalizzazione di casi, anche se non numerosi, di ragazze coinvolte in crimini violenti, risiede nel rischio di concentrare l’attenzione sulle storie, spesso drammatiche, dei singoli individui, mentre si generalizzano le cause e le dinamiche in riferimento a tutta la popolazione femminile.

Questo approccio considera il genere come elemento determinante anziché prendere in considerazione le differenze sociali, economiche e culturali.
Nel panorama dei reati, ci sono casi in cui le donne sono sempre state assenti ma dove ora si stanno osservando cambiamenti significativi, come nel coinvolgimento nelle gang. In realtà le ragazze hanno sempre fatto parte delle gang più di quanto comunemente si pensi e hanno sempre partecipato attivamente a crimini violenti, nonostante il loro coinvolgimento sia stato fortemente condizionato dal genere.

La partecipazione alle stesse è spesso correlata alla mancanza di alternative, non solo a causa delle minori opportunità strutturali disponibili per il genere femminile, ma anche per il contesto sociale e culturale di appartenenza.

Quest’ultimo è caratterizzato spesso da famiglie monoparentali senza padre e con la madre senza lavoro. Nella fattispecie vi è un’uscita precoce dalla scuola e una tendenza ad avere aspirazioni per il futuro irrealistiche e stereotipate, come l’appartenere ad una band o fare le modelle.

In questo caso la gang viene a rappresentare una soluzione ideale e collettiva, un’alternativa al futuro monotono che si prospetta. Vi è inoltre una visione romantica e idealizzata del futuro che aiuta a sviluppare un forte senso di appartenenza, includente anche il desiderio di protezione dalla violenza e dagli abusi del loro ambiente.

Gli agenti di controllo hanno sempre classificato le gang femminili come meno violente,
forse non tanto perché effettivamente lo fossero, ma perché mostravano maggiore preoccupazione per la loro sessualità e moralità piuttosto che per la loro effettiva propensione alla violenza.

Mentre la violenza è stata spesso considerata una forma di adattamento accettabile in parte per i maschi, lo stesso non si può dire per le femmine.