Nel precedente articolo ponevo l’attenzione su come, nelle relazioni contemporanee, la tendenza a pretendere che, chi entra in rapporto con noi, debba adattarsi totalmente a ogni nostro singolo bisogno, con le modalità da noi auspicate, sia divenuta la normalità. Questa modalità altamente disfunzionale ha origine dalla mancanza di autocritica.
La creazione di un legame non ha più come punto di partenza una riflessione relativa ai propri comportamenti, alle proprie reazioni e su come questi elementi abbiano un impatto sui propri sentimenti e le proprie azioni. Si tende invece ad attribuire all’altro le cause di ogni difficoltà relazionale, rispondendo così a due bisogni, quello di fuggire dal confronto e quello di deresponsabilizzarsi. L’effetto sul lungo termine è quello di un venire sempre meno, della prosocialità, ossia della tendenza a cooperare, alla disponibilità e alla condivisione.
L’empatia per le situazioni sfavorevoli degli altri è quanto consente l’affiliazione, meccanismo alla base della costruzione dei legami sociali. Il bisogno di affiliazione genera dalla necessità avvertita dall’individuo di sentirsi parte di un determinato gruppo sociale. Chi ha livelli più alti di N-Affil (need of affiliation) è costantemente impegnato a stabilire, mantenere e restaurare relazioni positive con le persone che ha attorno.
L’intelligenza prosociale contribuisce in modo rilevante a chiarire un aspetto fondamentale dell’intelligenza interpersonale, quella che, nel complesso intreccio tra cognizioni, sentimenti ed emozioni, implicati nei processi di decentramento e di empatia, sa orientare il proprio e l’altrui comportamento verso mete e azioni positive, rivolte all’ aiuto di persone o di gruppi. Educare alle autentiche forme di altruismo, consente di sviluppare un maturo senso d’identità dell’Io che consentirà, nelle differenti situazioni, di agire a favore di un’altra persona o di un gruppo sapendo superare le proprie motivazioni egocentriche e narcisistiche e i meccanismi esibizionistici o di difesa.
L’educazione prosociale è qualcosa di differente dalla semplice cooperazione, mentre la cooperazione è un atteggiamento che si attiva a condizione che altri la attuino, realizzando così una specie di scambio, il comportamento prosociale va oltre, perché chi agisce non ha bisogno di aspettare che altri attuino il medesimo comportamento né che l’altra persona vi corrisponda.
In passato il modello educativo genitoriale era basato sull’autocritica e la responsabilizzazione, con un importante focus sul meccanismo azione-conseguenza su sé e gli altri. Ora, invece, anche quando il figlio è in errore, la tendenza delle figure parentali è quella di accusare gli educatori vicari come gli insegnanti o gli allenatori. Dal momento che il bambino apprende per imitazione si comprende come il modello della deresponsabilizzazione vada ad inibire l’apprendimento di un comportamento prosociale. E anche nel caso in cui, a livello educativo, vengano valorizzati gli atteggiamenti cooperativi, non uguale attenzione viene riservata allo sviluppo di comportamenti più “moralmente gratuiti”.
Si consideri che i comportamenti prosociali, senza ricercare gratificazioni estrinseche o materiali, favoriscono altre persone o gruppi o il raggiungimento di obiettivi sociali positivi, aumentando la probabilità di dare inizio a una reciprocità positiva e solidale nelle relazioni interpersonali conseguenti, salvaguardando l’identità, la creatività e l’iniziativa delle persone o dei gruppi coinvolti.
L’azione prosociale ammette per il suo autore soltanto gratificazioni intrinseche o immateriali. Il ruolo del destinatario è un criterio di validità ed efficacia dell’azione prosociale; perché un’azione possa essere considerata prosociale, chi la riceve deve accettarla, approvarla ed esserne soddisfatto.
Dal momento che l’uomo è un essere sociale, è comprensibile che l’inibizione di comportamenti adattivi avrà delle conseguenze anche di ordine comportamentale che tenderanno ad esprimersi tendenzialmente con rabbia e agiti violenti in quanto gli individui si trovano a dover gestire, in maniera inconsapevole, un conflitto generato dalla tendenza adattiva al gruppo e il non superamento della necessità di gratificare con immediatezza i propri bisogni.