«Un’unica consolazione: il nulla per tutti, la vacuità degli istanti,
l’eternità sicura di ciò che non è più»
(E.M. Cioran)
L’indizio è la nuova traduzione integrale dell’opera che Robert Burton dette alla luce nel 1621 con lo pseudonimo di Democritus Junior, curata da Stefania D’Agata D’Ottavi per la prestigiosa Collezione I Millenni di Einaudi (Torino, 2023): Anatomia della Melanconia – il più bel titolo, secondo l’autore di questo calamitoso intervento, mai assegnato a un prodotto dell’ingegno umano – è una monumentale sintesi del pensiero di molti autori di epoche passate, suddivisa in un prologo e tre parti (melanconia in generale, amorosa e religiosa). Si tratta di un saggio senza dubbio molto eccentrico, più concettuale che scientifico, per quanto l’autore considerasse la melanconia una patologia, non un’alterazione dell’umore, descrivendone cause, sintomi e terapie proposte nel corso dei secoli che lo avevano preceduto; il pensiero centrale è infatti che qualunque sentimento e condizione umana possano ricondursi alla manifestazione di uno stato malinconico: «Cos’è la melanconia? Una tristezza diffusa, un’eccessiva sensibilità, una depressione conclamata? The Anatomy of Melancholy è una dissezione che mette a nudo non solo la malinconia strictu sensu, ma tutte le alterazioni dei sentimenti. Un’affascinante miscela di pensiero antico e di prospettive scientifiche materialistiche proto-moderne: dalle teorie mediche di Ippocrate e Galeno passando per le riflessioni filosofiche di Aristotele, dalle influenze astrologiche al ruolo del clima sulle passioni, il pensiero di Burton non è lineare ed è sempre intervallato da citazioni, digressioni, aneddoti, osservazioni curiose e ironiche. Da malattia corporale e diagnosticabile, la malinconia diventa così emblema della condizione umana e la penna di Burton riesce a dipingere quella che doveva essere un’anatomia del “corpo” come un’anatomia del “mondo”» (dall’Introduzione di Stefania D’Agata D’Ottavi). Un grande affresco barocco ispirato al disincanto e alla distanza dalla follia umana tipica degli atomisti presocratici, che traduce l’angoscia esistenziale in emblema della condizione umana, a metà strada tra enciclopedia, retorica e medicina, per lunghi tratti aneddotico e diseguale, ma pur sempre – fa notare Andrew Solomon (Il demone di mezzogiorno. Depressione: la storia, la scienza, le cure, Milano, Mondadori, 2002) – il più citato testo sul tema fino all’apparizione di Lutto e melanconia di Sigmund Freud (1917). Sarebbe tuttavia ingannevole associare la “malattia dell’anima” cara ai leopardiani alla tristezza, oppure abusare della categoria psichiatrica della depressione, dal momento che la condizione malinconica – «Per natura proteiforme (può essere eccitante o patologica, dolce o amara, religiosa o erotica, feconda o sterile)» – innesca non di rado la reazione di una creatività morbosa, scettica, vertiginosa, fin troppo umana.
L’intermezzo è la bella mostra “Nostalgia. Modernità di un sentimento dal Rinascimento al Contemporaneo”, organizzata nei mesi appena trascorsi al Palazzo Ducale di Genova, con importanti opere di Dürer, Hayez, De Chirico e altri grandi artisti sulla nostalgia, condizione patologica di cui – secondo il medico alsaziano del Seicento Johannes Hofer, coniatore del termine – soffrivano i soldati svizzeri lontani da casa: «L’aspetto più interessante di questo sentimento – rimarca Matteo Fochessati, uno dei curatori dell’esposizione – è proprio che si può provare nostalgia addirittura di qualcosa che non si è mai vissuto. E nel momento storico che stiamo vivendo, pieno di incertezza, inquietudini, insoddisfazioni, questo è quantomai evidente» (Valeria Arnaldi, MoltoSalute, 16 maggio 2024). Insomma, in attesa di sapere quali siano stati i momenti storici immuni da incertezza, inquietudini e insoddisfazioni, pare che i sentimenti avversi vengano trattati sempre più spesso come patologie, se non addirittura medicalizzati come sintomi di malesseri di giovani e meno giovani attraverso un diffuso perbenismo emotivo e il suo lessico fintamente clinico (vedi il sorprendente saggio di Frank Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, Feltrinelli, 2008). Nostalgia, malinconia, noia, apatia, “mal d’amore” (quando ancora non si parlava di anoressia) sono eventi interpretati come malattie, prima di essere riconosciuti come sentimenti, nella cornice culturale – si fa per dire – di una postmodernità digitale truce e analfabeta in cui il ritiro intimistico, il silenzio e il ripiegamento sono stati d’animo associati al fallimento, all’insuccesso, al tracollo del soggetto e della sua immagine manierata: «Secondo una ricerca realizzata da Inc Non Profit Lab, con Astraricerche, in Italia il 60% delle persone dichiara di convivere con un disagio psicologico (sic). E, tra questi, il 75% è rappresentato da giovani della generazione Z. Sul “podio”, disturbi del sonno per il 32%, ansia per il 31,9%, apatia per il 15%» (Idem). In attesa di sapere dagli esperti del settore quale sia esattamente il perimetro dell’espressione “eccesso di diagnosi”, poteva mancare alle cronache l’ineffabile generazione Z, quella che finisce in TSO con mamma e papà al seguito dopo una insufficienza in matematica e con la testa fracassata per una sfida a colpi di selfie finita male? D’accordo, sarà pure difficile accettare la tristezza, riconoscere il confine tra emozioni e malattia, ma – avviso ai naviganti – le parole d’ordine dell’ansia un tanto al chilo che frignano nei salottini pomeridiani incessantemente dal 9 marzo 2020 (Covid, distanziamento sociale – che poi è fisico, non sociale – lockdown) stanno esaurendo il credito, occorre trovarne di nuove, magari chiedendo lumi alle migliaia di ragazzini palestinesi scannati dai fuochi d’artificio gentilmente offerti dai buoni cristiani occidentali all’avamposto democratico mediorientale, che durante il castigo pandemico – quelli sì – giocavano in strada: perché erano ancora vivi e, a differenza dei nostri fragilissimi rampolli rimbecilliti dai social, un bel salottino attrezzato con TV al plasma, Playstation, PC e annessi vari probabilmente non lo avevano.
La chiosa è servita sul classico piatto d’argento dalla pubblicazione delle ultime due gemme inedite di Emil Cioran (1911-1995), lo scettico transilvano per cui la disperazione non fu altro che il culmine di un’autoterapia senza scampo (Il nulla per tutti. Lettere ai contemporanei, Mimesis, 2024; Il crepuscolo dei pensieri, Adelphi, 2024). La prima è un’ampia raccolta epistolare curata da Vincenzo Fiore, la seconda è la splendida traduzione di Cristina Fantechi dell’ultimo testo pubblicato in rumeno nel 1940 (se si esclude Il breviario dei vinti, tenuto nel cassetto fino al 1993). Sullo stile e le opere di questo vero e proprio anatomopatologo dell’apocalisse sono state sprecate fin troppe pagine – non avrebbe gradito e non è certamente intenzione di chi scrive aggiungerne – ma in un’epoca in cui il pensiero è asservito alla nevrastenia idiota dell’azione e della comunicazione vale la pena accomodarsi sui gradini dell’abisso e coccolare il proprio fallimento, la propria tardività: «Mio caro amico (Yves Bonnefoy), sono fatto così: non riesco né a promettere né a mantenere. La mia capacità di indecisione rasenta l’indecenza. Mi piace muovermi (e lo faccio ancora!), a patto di non oltrepassare i confini del virtuale. “Attività eterna senza azione” – queste parole di Wordsworth su Coleridge, il santo patrono degli abulici, mi seducono e mi perseguitano» (E. Cioran, Mimesis, 2024). Il nulla fragoroso di Cioran è folgorante e ristoratore, una mano tesa tra le abiezioni della modernità, una medicina instillata da un demonio caritatevole nelle feritoie di un’esistenza solo tentata e poi adagiata sulle proprie tare: facciamone tesoro quando, a fine giornata, non vediamo l’ora di affidare a Instagram i nostri insulsi pigolii. Non un vuoto temporaneo, ma la rivelazione consapevole della tragicità della vita: «Potete tranquillamente dire che l’universo non ha alcun senso. Nessuno se la prenderà. Ma provate ad affermare la stessa cosa di un individuo qualsiasi; questi protesterà, e si adopererà per farvela pagare. Tutto il segreto della vita si riduce a questo: essa non ha alcun senso, eppure ognuno di noi gliene trova uno» (E. Cioran, Adelphi, 2024).
Grazie, caro Emil, dell’inconveniente di essere nato.