«L’arte del vivere sta nel cogliere i piaceri come vengono,
e i piaceri più intensi non sono intellettuali, né sono sempre morali»
(Aristippo di Cirene, 435 A.C. – 366 A.C.)
Lo confesso: ho un debole per i cattivi maestri; più o meno da quando ho imparato a leggere e facevo il tifo per il Lupo e l’Orco nelle noiosissime storielle di Cappuccetto Rosso e Pollicino. Poi ho scoperto l’oscura tragicità delle fiabe africane, tenute ben nascoste ai sensibilissimi bimbi bianchi, grazie a un libercolo trafugato nella biblioteca della littoria scuola elementare palustre, tutta bacchettate sulle nocchie e recite natalizie. Ai tempi del liceo ho detestato lo sterile dualismo platoniano e la petulante logica aristotelica, innamorandomi del bagliore edonista di Epicuro; ho ancora i sudori freddi al ricordo delle insopportabili “critica di qua, critica di là” di Kant, mentre divoravo le rapide insolenze vergate da Schopenhauer sui tavolacci dell’Englischer Hof di Francoforte, tra vino e prostitute (Colloqui, Biblioteca Universale Rizzoli, 1995). Quando i trombettieri e gli scribi della buoncostume cinguettano a penne unificate le novene sul bene e sul male, invariabilmente mi ritrovo a perfetto agio nel campo del male, prima per istinto e subito dopo per coscienza; come lo storico leader socialista Pietro Nenni – prima che quella sigla diventasse la ben nota cricca mazzettara – che giudicava la bontà delle proprie azioni dai titoli di apertura dei costumati giornali padronali: se lo contestavano, aveva la certezza assoluta di aver agito per il giusto. Provo la stessa tediosa sensazione ascoltando e leggendo, per fortuna sempre meno vista l’età che avanza, i colleghi sociologi, psicologi, esperti vari, di quelli che non la fanno sul divano nei salottini borghesi buoni per tutte le fasce orarie: approccio letargico, lessico addomesticato – una specie di neolingua vietata ai diabetici – contenuti che in confronto la polizia morale iraniana sembrerebbe un’orda di assatanati sul Sunset Boulevard.
Insomma, mi piacciono i rompicoglioni, i polemisti, anche i collerici. E di questa categoria fa certamente parte quell’autentico fuoriclasse di Michel Onfray, controverso anti-filosofo fondatore dell’Università popolare di Caen, autore di oltre cinquanta libri urticanti al punto da tenerlo al margine delle sempre più inutili accademie, aggiungerei per fortuna, e della cultura di moda nelle arzillissime RSA del pensiero occidentale. L’indizio giunge dal saggio appena tradotto per i tipi di Ponte alle Grazie, sempre benedetto editore (Teoria di Gesù. Il Cristo è esistito davvero? 2024) in cui, a quasi vent’anni dal Trattato di ateologia, l’autore torna ad affrontare la questione dell’ateismo senza nascondere, bontà sua, la rivendicazione del diritto a un esplicito negazionismo religioso, e i soliti inquisitori col cilicio sotto il cuscino si rassegnino pure: i comandamenti siano un vincolo per i credenti, a noialtri basta il Codice penale. Lo stile di Onfray è sempre vorticoso, obliquo, mai libresco anche quando la scrittura si addentra in dispute millenarie in cui usare la parola chiave “finzione” e definire Gesù «un essere di carta, un artefatto intellettuale», storicamente potenziato dalla patristica e dalla scolastica, sembra quasi il capriccio di un ragazzaccio talentuoso e indomabile: «Il tutto è raccontato in modo leggero, spregiudicato, tra l’ironico e il divertito, come di chi si sente definitivamente libero da un impiccio penoso e può guardare al futuro con slancio adolescenziale.» (Giancarlo Gaeta, il venerdì, 18 ottobre 2024). Non esistono tabù nella produzione iconoclasta di Michel Onfray – l’unico intellettuale vivente con il quale l’autore di questo sedizioso intervento riesce a non addormentarsi nel corso di uno scambio epistolare – come quando, nel corso della lunga gestazione della controstoria della filosofia, riuscì a mandare su tutte le furie i seguaci dell’unico monoteismo laico del secolo breve: la psicoanalisi freudiana (Crepuscolo di un idolo. Smantellare le favole freudiane, Ponte alle Grazie, 2011). Incurante dell’odio che si sarebbe procurato, ha sostenuto quello che nessuno aveva ancora osato: Freud ha tentato di costruire una scienza e non vi è riuscito; ha voluto provare che l’inconscio ha le sue leggi, la sua logica intrinseca, può essere studiato mediante protocolli che riteneva scientifici, e tuttavia ha mentito, per potersi fregiare degli emblemi della scientificità. Da autentico narcisista, non sopportava la ferita di un congegno esplicativo che non poteva aspirare allo statuto di scienza esatta: un bilancio terribile che – nell’opinione di modesto psicologo sociale quale è lo scrivente – è stato prevenuto solamente da Burrhus Skinner, proprio perché il più prudente statunitense si è limitato a osservare le ridicolaggini umane dall’esterno, lasciando l’onere della confessione a preti, moralisti e prestigiatori.
Il meglio di sé, tuttavia, Onfray lo ha offerto nell’analisi e nella difesa della corporeità e dell’erotismo opposti alla metafisica platonica e all’impostura cristiana dell’associazione tra piacere e peccato. In una godibile manciata di scritti, osteggiati dall’esercito dei giusti e quindi ancor più credibili (Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare, Fazi, 2007; La potenza di esistere. Manifesto edonista, Ponte alle Grazie, 2011; L’ arte di gioire. Per un materialismo edonista, Fazi, 2009; La cura dei piaceri. Costruzione di un’erotica solare, Ponte alle Grazie, 2009; Il corpo incantato. Una genealogia faustiana, Ponte alle Grazie, 2012), si sviluppa il recupero del legame tra corpo e animalità allontanato dal pensiero occidentale per mortificare i sensi, inventando meccanismi asettici e ascetici come la castrazione e il matrimonio borghese, fabbricando un ideale deplorevole di corpo dotato di una sessualità catastrofica, che non beve, non mangia, non ride – un anticorpo, in buona sostanza – edificato su venti secoli di cristianesimo, nevrosi e sante anoressiche; recuperando soprattutto la vitalità del sensismo orientale: «L’antidoto a questo nichilismo della carne si trova nel Kamasutra di Vatsyayana. Sotto il sole dell’India, l’erotismo solare implica una spiritualità amorosa della vita, l’uguaglianza tra uomini e donne, la promozione di belle individualità allo scopo di costruire un corpo radioso per una esistenza esultante.» (Onfray, 2009). Ma anche senza nasconderci quello che i nostri orribili manualetti di filosofia ci hanno sempre nascosto, la pulsione di vita che straordinari pensatori come Aristippo di Cirene, allievo di Socrate e ispiratore di Epicuro, hanno usato per nobilitare il desiderio e i sensi come cura contro la rinuncia e l’odio verso sé stessi e gli altri (L’invenzione del piacere. Aristippo e i Cirenaici, Ponte alle Grazie, 2014); e quello che la liturgia insulsa di un paese di provincialotti ipocriti, perbenisti e bacchettoni ci ha fatto pervenire di opere che avevano ben altro da dire oltre alle camminate sulla Luna: «Può Lucrezio insegnarci la felicità? Perché rileggere oggi un poema latino del I secolo avanti Cristo? La risposta di Michel Onfray è semplice: perché il “De rerum natura” di Lucrezio non è solo un trattato sul nostro mondo materiale ma insegna a vivere bene, a vivere una vita autentica, più vera e felice, purché si attui una vera e propria conversione e si comprenda tutto ciò che c’è da comprendere, ovvero che la realtà è materiale e che noi stessi siamo solo la materia che ci compone; che tanto basta per fare a meno dell’idea stessa di un aldilà; che la religione è una superstizione; che l’amore sensuale è un rimedio alla malinconia; che la saggezza è accessibile e consiste in un’aritmetica dei piaceri e in una dietetica dei desideri; che non esistono né inferno né paradiso ma solo il mondo come lo vediamo. Che siamo fatti di particelle, temporaneamente aggregatesi in una forma, le quali dopo la nostra morte torneranno a danzare riaggregandosi in altre forme, e che solo la passione per il qui e ora ci rende davvero felici.» (Onfray, Vivere secondo Lucrezio, Ponte alle Grazie, 2023).
Casomai ci leggesse il ministro dell’istruzione patriottica, un consiglio non richiesto: dopo l’ora delle umiliazioni, anche l’ora delle consolazioni. Simboliche, si intende.
PS: ho sempre pensato, come Schopenhauer, che, quando una mente brilla di intelligenza e talento superiori la mediocrità generale si coalizza per abbatterla. È questo il caso di Michel Onfray.
E che per apprezzare fino in fondo un prodotto dell’ingegno deve venirmi voglia di azzuffarmi per futili motivi con il suo autore dopo una serata di eccessi. Anche in questo caso non ho dubbi.