«Quanto rapidamente in una società di citrulli si diventa citrulli»
(Oswald Spengler)
L’occidente somiglia sempre più a una di quelle vecchie barzellette che non fanno ridere nessuno, tipo quella dell’ubriaco che guida contromano, appena ricordata in una vignetta dello straordinario Riccardo Mannelli. E una sottile linea nera tiene il filo sospeso tra un monumentale, celebrato e controverso saggio in due volumi pubblicato dal filosofo e scrittore tedesco Oswald Spengler e il baratro aperto sulla contemporaneità. È trascorso un secolo da quando apparve la prima edizione di Der Untergang des Abendlandes (1918-1922, curato in italiano da Julius Evola nel 1957 e successivamente ripubblicato in diverse collane, vedi soprattutto “Il tramonto dell’Occidente”, Longanesi, 2008), un estremo tentativo di abilitare una concezione ciclica della storia che recuperasse i concetti di simbolo e destino, annichiliti dalla cultura moderna e sostituiti da quelli di segno e progresso, associati al controllo tecnico-scientifico dell’esistenza. L’opera ebbe un’ampia ricezione, legata non tanto a una reazione antilluminista – alla quale molti ne attribuiscono il successo – quanto perché il crollo della Germania umiliata dal Trattato di Versailles e dalla depressione economica di Weimar veniva spiegato in termini apparentemente razionali: la tesi, tutto sommato non rivoluzionaria, che le civiltà attraversino un ciclo naturale (nascita, apogeo, declino) e che il caos materialista impadronitosi dell’Europa avesse condotto il continente sull’orlo di una crisi irreversibile, fece di Spengler uno dei precursori del più raffinato pensiero heideggeriano ma soprattutto interprete di un oscuro, anche affascinante misticismo che non tardò a saldarsi con il Terzo Reich. Profondamente influenzato dalla teoria dell’ Eterno Ritorno di Nietzsche, Spengler intride la storia di un pessimismo culturale portatore di decadimento piuttosto che di evoluzione, le cui radici sprofondano nel rigetto della spiritualità e nella sovversione dei rapporti tradizionali di potere minacciati da forme nascenti come la democrazia e il socialismo: «Ma ecco che ora si grida al pessimismo, accusa con la quale coloro che restano eternamente attaccati allo ieri stigmatizzano ogni pensiero destinato solo agli esploratori del domani. Però non è per costoro che io ho scritto, per costoro, che scambiano il raziocinare sofistico intorno alla natura dell’azione per l’azione stessa. Chi si mette a definire ignora il destino. Per me comprendere il mondo significa essere all’altezza del mondo. Essenziale, importante, è la durezza della vita, non il “concetto” di essa, come invece insegna la filosofia da struzzo dell’idealismo. Chi non si lascia illudere dai concetti non sentirà ciò come pessimismo, mentre gli altri non importano».
La stessa aria torbida è giunta all’autore di questo rassegnato intervento dalla famelica lettura dell’ultimo libro pubblicato in Italia da Emmanuel Todd (“La sconfitta dell’Occidente”, Fazi, 2024), intellettuale transalpino molto poco engagé, anti-macronista di professione e nipote nientemeno che di Paul Nizan e del grande antropologo Claude Lévi-Strauss. L’autore mette in relazione il declino demografico, economico e morale delle società occidentali con l’apertura del fronte ucraino, cartina di tornasole di una Russia “democrazia autoritaria” nuovamente grande potenza e guida, insieme al colosso cinese, di un sud-est del mondo orgoglioso, a fronte delle oligarchie liberali trainate dal letargo statunitense «in preda al nichilismo e in crisi irreversibile di egemonia». L’analisi di Todd gira intorno a pochi punti ben organizzati e documentati sulla base di evidenze statistiche: la prima sconfitta è di natura tecnologica e militare, dal momento che gli Stati Uniti, primi fornitori di armi all’Ucraina, nel 2023 hanno investito 900 miliardi di dollari in spesa militare contro i 100 della Russia, che perdipiù ha sviluppato i famosi missili ipersonici (che sta fornendo in grande abbondanza all’Iran, ma questa è un’altra storia) e tiene meravigliosamente il confronto perché lo Stato possiede le imprese del settore, puntando alla sicurezza, a differenza dell’industria bellica occidentale che punta al profitto; la seconda sconfitta, la più demenziale per l’insigne sinedrio degli analisti occidentali, non escluso l’immancabile nonno al servizio delle istituzioni, è la tregenda dell’economia politica, laddove nel limite del 2022 avrebbe dovuto consumarsi la “sconfitta strategica” della Russia grazie alle sanzioni economiche, con lo strabiliante risultato di massacrare la produzione industriale europea a causa dell’aumento incontenibile del prezzo dell’energia. Come dimenticare i sorrisetti di complicità di questi miracolati, con l’aria garrula tipo “gliela facciamo vedere noi”, che dopo aver provocato tale catastrofe umanitaria – la nostra si intende, che siamo arrivati a pagare due euro e mezzo un litro di verde e dodici euro un chilo di fagiolini – sono ancora in cabina di regia invece che in fila al banco alimentare? Peccato che lorsignori non abbiano ancora colto la differenza tra un’economia basata sulla finanza e una sulla produzione industriale e le materie prime, e che i Paesi del presunto Sud (Est) del mondo hanno rispedito al mittente le sanzioni imposte dai geni dell’Occidente, sempre più isolato a livello internazionale (l’India ha aumentato del 1800% – milleottocento – le importazioni di petrolio russo, e solamente insieme alla Cina ha compensato il 95% della perdita di entrate della Russia dall’UE). E ancora ci danno lezioni dai migliori salotti del fancazzismo europeo, tutto generosamente offerto dalla comunità che fa la cresta per una serata in pizzeria con il voucher di The Fork. Lo fa notare, con la consueta efficacia, Francesco Sylos Labini: «Una classe politica che da più di 40 anni ha scelto come consigliere una casta di pseudo-intellettuali che interpretano l’economia, e con questa il funzionamento del mondo, in maniera completamente ideologica […] Il risveglio è ora molto doloroso prima di tutto per i comuni cittadini. La speranza è che almeno serva a smascherare gli stregoni che ci hanno portato sull’orlo della catastrofe nucleare» (Il Fatto Quotidiano, 2 ottobre 2024). Gli stessi che, convinti di essere invincibili, ci hanno sciroppato oltre mezzo secolo di libero mercato – i famosi mercati, senza averne mai visto uno di ortofrutta – di concorrenza e altri deliri cognitivi.
E infine la vergogna. Di chi applica sistematicamente un doppio registro morale persino sulla morte, garantendo impunità assoluta ai nipotini di Zio Sam col mitra in casa, non osando richiedere il ritiro dell’ambasciatore, l’omissione della bandiera nazionale nelle competizioni sportive, uno straccio di sanzione economica o militare: altro fronte, altra storia – tra i balbettii dei soliti camerieri con la lista della spesa delle falangi oligarche – d’altra parte siamo tutti abituati alle orde di poveracci massacrati nel servizio di apertura degli insopportabili TG nazionali. Di chi vede solo il terrorismo altrui (copy Elena Basile), con lo spazio politico-mediatico al seguito del mito di una civiltà superiore cara ai crociati, agli schiavisti, ai colonizzatori e ai nazisti: «Mi piacerebbe che le coscienze imperturbabili dei democristiani, dei falsi liberali, e dei falsi socialisti si scuotessero. C’è più moralità nella posizione di un partito considerato terrorista che in quella del democratico Occidente» (idem).
Siamo o non siamo i buoni? Meglio finirla qua.