La madre di Montale: descrizione di un carattere

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La carriera poetica di Montale, la quale è sì contemporanea all’ermetismo, ma scevra dei suoi tratti più estremi, non presenta quelle rotture presenti nella produzione ungarettiana. L’itinerario montaliano procede verso una sorta di approfondimento della visione della vita, anzi di una visione. Tale approfondimento che in sé, ovviamente, contempla anche quello poetico, è chiaramente definito sin dai primi componimenti e resta costante in tutta la sua produzione. Ma non staremmo qui a parlare della sua vicenda poetica, già molto nota. Gli elementi umani, con il loro peso corporeo e corporale, non sono ancora molti, la sua poesia si distingue però, anche, per le figure femminili. Tra le ispiratrici del Poeta la madre è senza dubbio la meno nota e studiata. Un personaggio dal carattere particolare, quasi sempre nell’ombra. A tal proposito ci sovviene in ausilio Gianfranco Contini: «fragilità apparente che suscita la protezione femminile: la sorella di poco maggiore Marianna prefigura tutte le donne che vigilarono sulla sua vita e sono registrate nel suo canzoniere». Montale era profondamente legato alle proprie radici geografiche e famigliari. A quel mondo antico, quasi di un altro periodo temporale, il quale lo legava alla sua fanciullezza trascorsa tra Genova e Monterosso. In tale contesto la presenza materna non può non avere un ruolo fondamentale. C’è da dire che nella produzione montaliana l’affetto per le persone umili, spesso figure femminili, che lo hanno protetto con la loro umanità, con il loro calore, con la loro fede candida, è un elemento fondamentale e fondante. Di Maria Bordigoni, la donna che restò sessantacinque anni a servizio della famiglia Montale, la cuoca che preparò sempre i loro cibi tanto da creare un gusto di famiglia, la famosa donna barbuta, conservò gelosamente una vecchia foto (A. Frasson, Poesia e poetica di Eugenio Montale, in L’osservatore politico letterario, anno 27, n. 10 1981, pp. 49-60). Maria fu per Montale una sorta di angelo custode, quasi una madre. Un’altra Maria montaliana fu la Finollo, che per decenni fece la custode della Villa di famiglia a Monterosso. Di lei si parla in La Casa delle due Palme. La madre però riveste un’importanza umana e poetica fondamentale per Montale. Ma chi era la madre, Giuseppina Montale Ricci? Una donna tenera che seppe sempre accogliere le ansie e i malumori del figlio, e che lo condusse a riscoperta costante di antichi valori di bontà e semplicità. La poesia A mia madre fu redatta nel 1942 e rappresenta una profonda riflessione sulla morte. La lirica fu, infatti, scritta dopo la morte della madre. Essa traspare tutta l’angoscia di un figlio che si sente privato dell’amore più grande, quello che cura e protegge in modo totale e salvifico. Il componimento fa parte dalla raccolta La bufera e altro edita nel 1956. Questa, senza alcun dubbio, risulta la più cupa, pessimistica e angosciante raccolta in tutta la produzione montaliana. In essa il “male di vivere” diventa tangibile e assume una dimensione cosmica, che va dal microcosmo montaliano devastato dalla morte della madre, al macrocosmo con un mondo in piena guerra (E. Montale, La bufera e altro, Milano, Mondadori, 1961). In tale raccolta, due sono le figure femminili le quali svolgono un ruolo di primissimo livello, entrambe con un ruolo salvifico: la prima è Clizia, nome tratto dalle Metamorfosi di Ovidio che indica l’amata Irma Brandeis; la seconda è proprio la madre, divenuta un’ombra in transito nei campi elisi. Una lettura critica vede invece in Cinzia la presenza ancora tangibile della madre morta. In ausilio, a tal proposito, ci sovviene l’osservazione condotta dal critico Giovanni Mazzotta nel 1947, il quale notò che l’”ombra viva” presente in modo costante nella raccolta potesse non riferirsi all’allegoria della poesia o alla presenza salvifica della donna-angelo, ma che quella messaggera divina che guida il poeta attraverso la bufera del mondo in tempesta fosse in realtà la madre. Una sorta di fantasma poetico, ancora in grado di indirizzare lo stile e la vita del figlio. Tale teoria sembrerebbe avere una tangibile evidenza nella poesia Una voce è giunta col le folaghe, nella quale il Poeta evoca una misteriosa ombra femminile, «un’ombra viva», che ricorda una presenza virgiliana. L’apice lo si tocca però nel componimento A mia madre. La madre rappresenta un esempio di coerenza, che ebbe un’esistenza modesta e silenziosa, interamente votata agli altri, e soprattutto a quel figlio che all’età di trent’anni aveva deciso di allontanarsi da casa per cercare la sua strada. Era nata nel lontano 1862, pur venendo da una buona famiglia, essendo donna, le era stata preclusa l’istruzione superiore, mentre il fratello, Ferdinando, era avvocato. Ella aveva accettato serenamente tali circostanze. In lei risedeva un forte senso del dovere nei confronti della famiglia. «Nessuna base culturale per poter seguire le scelte di Marianna ed Eugenio; ma intelligenza, intuito vivace, spirito di osservazione, arguzia nel cogliere aspetti di uomini e cosa accanto a sé; una sottile vena di autoironia, una sofferta partecipazione ai problemi di tutti. Certamente qualcosa del carattere della mamma si è riflesso nel figlio più piccolo, Genio, come lo chiamavano tutti, parlando tra noi in famiglia in dialetto genovese» (B. Montale, Montale e sua madre. Cronaca famigliare, in Nuova Antologia, anno 121, 1986, fas. 2158, pp. 223-230, cit. 224.). Queste le parole spese per descrivere la zia da Bianca Montale, nipote di Eugenio, in un intervento del 1986 in Nuova Antologia. Nonostante l’enorme divario culturale tra madre e figlio, molte erano le affinità di sentimento tra i due. Quelli più salienti sono sicuramente l’ansia, la fragilità nervosa, la timidezza, la concisione nello scrivere e nel parlare, quasi una comunicazione telegrafica, una visione negativa dell’esistenza, ma anche un certo senso dell’umorismo. Montale non era consono conservare gli scambi epistolari, se non quelli con cari amici, tra i quali Svevo, Contini e Solmi, ma quelli con la madre le tenne tutte in una cartella ben ordinata sino alla morte. Tali lettere non avevano nulla di particolare per essere conservate. Non offrono nessuno spunto per la ricostruzione della vicenda poetica di Montale, ma per quella umana sì. Esse mettono in evidenza il rapporto con la madre, un rapporto di piena sintonia. Le lettere narrano di una cronaca quotidiana. Il quadro è completo e minuzioso, il linguaggio estremamente semplice, con alcune influenze dialettali genovesi. Le lettere sono ordinate e conservate con estrema cura e per il Poeta rappresentano l’estremo e ultimo legame con la madre rimastogli. «Nonna Pin dà notizia di tutti i membri della famiglia – cugini e parenti meno stretti compresi – descrivendone gioie e dolori (ma più dolori che gioie); mette al corrente Eugenio di matrimoni, nascite, malattie, disavventure finanziarie, crescita di nipoti, vacanze a Monterosso». Prima che Montale lasciasse Genova la madre era in uno stato di perenne apprensione per il figlio, il quale non sembrava essere in grado di trovare la sua strada. Nell’intervento in Nuova Antologia di Beatrice Montale è riportata una lettera della madre di Eugenio alla madre di Beatrice, dalla quale traspare tutta la preoccupazione del mittente: «Io per quando Genio si guadagnasse qualcosa per conto suo (come spero) direi ormai i figli sono al loro posto, la mia missione sarebbe finita, non mi rimarrebbe che consolare le ultime ore del mio povero marito e nulla più. Io aspetto la decisione di Genio che verrà alla fine di questa settimana» (B. Montale, Montale, cit., p. 225). Genio, era così che Eugenio veniva appellato in famiglia. La lettera è del settembre 1926. Dalle parole della madre di Eugenio traspare tutta l’ansia per il futuro del figlio e il forte dovere famigliare che ella aveva sempre nutrito. Il legame tra i due è così forte proprio perché lo vedeva come il più debole della famiglia. Il suo è un amore protettivo e incondizionato.