RIFORMATORIO UNIVERSITARIO

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Non sarebbe settembre se non ci ammorbassero puntualmente – una volta iniziata la scuola con le classi pollaio e gli introvabili docenti – con le solite grottesche geremiadi sulla riforma dell’università italiana. Perché dal 17 marzo 1861 in avanti non c’è stato ministro che non abbia tenacemente legato il proprio nome a una qualche riforma dell’università, sistematicamente peggiorandone lo stato precedente; anche se, a onore del vero, sarà complicato scalzare dal gradino più alto del podio il disastro Gelmini. Ci sta provando l’attuale ministro/a Anna Maria Bernini (in attesa delle risoluzioni grammaticali di femministe e patrioti si potrebbe optare per l’omissione delle desinenze), che ha incaricato una commissione presieduta dai rivoluzionari Galli della Loggia di rivedere e razionalizzare ordinamento e offerta formativa con l’obiettivo di rivitalizzare le spopolanti università pubbliche (e quindi mi pare scontato che se ne avvantaggeranno le private, come impone il verbo neoliberista). Nel mese di giugno il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge (Semplificazioni) che contiene un’ampia delega al governo per adottare decreti legislativi in materia di formazione superiore e ricerca, che va dagli assetti istituzionali alla governance al reclutamento. Quest’ultimo aspetto è il più saporito – incidentalmente perché muove il grosso delle marchette – e riguarda soprattutto la riforma del cosiddetto “pre-ruolo”, quella fase misteriosa e tecnicamente interminabile tra il dottorato e l’assunzione che in Italia è fatto di precariato, povertà, ricatti e abusi silenziosi, in cui peraltro galleggia faticosamente da 15 anni anche l’autore di questo breve e dolente intervento.
Le premesse: «Nel 2022 il governo Conte ha creato il “contratto di ricerca”, cioè un contratto di lavoro normale, con ferie e contributi, simile a quello dei ricercatori europei, andando a cancellare l’”assegno di ricerca”, un unicum, contratto esentasse senza diritti, diffusissimo negli atenei italiani. Il periodo di transizione, di proroga in proroga, però ha paradossalmente fatto esplodere i vecchi assegni, più convenienti: gli assegnisti di ricerca nel 2021 erano 15 mila, oggi oltre 20 mila, i ricercatori tipo A (RTD-A, precari) nel 2021 erano poco più di 5.000, ora oltre 9.000» (Leonardo Bison, Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2024). La misura del secondo governo Conte fu, tra le altre cose, benedetta anche da NS “nonno al servizio delle istituzioni”– tra i bagni di saliva riservati da giornali e telegiornali padronali – che di fatto non la toccò, avendo da pensare a cose più importanti come la sopravvivenza materiale e spirituale dei CDA di banchieri e imprenditori, gli stessi che oggi propongono agli operai cassintegrati, con raro sprezzo della ridicolaggine, una strepitosa possibilità: l’acquisto di una Maserati a condizioni privilegiate per sé stessi, parenti e amici! (Già si vedono le resse in concessionaria per accaparrarsi chi una Grecale, chi una Levante, i più temerari una GranCabrio). Ma questa è un’altra storia, e prudono le mani.
Insomma, il/la ministro/a assicura che non ci saranno ulteriori proroghe per gli assegni di ricerca oltre il dicembre 2024, ma gli atenei nicchiano perché i contratti approvati nel 2022 sono più costosi, e vogliono come sempre le mani libere di fare come gli pare (così intendono la famosa “autonomia”), soprattutto di sostenere la didattica e la sopravvivenza dei corsi di laurea con i contratti esterni di docenza, pagati un’elemosina, quando non assegnati a titolo gratuito al personale in quiescenza. Gli ultimi dati ci dicono che quasi la metà dei professori universitari italiani insegnano, dietro contrattazione di diritto privato, a titolo quasi gratuito; la platea è composta prevalentemente da due categorie umane: giovani e meno giovani titolati che prendono gli incarichi per motivi curricolari, speranzosi in una futura collocazione in ruolo, quasi sempre disattesa dalle beghe concorsuali (alle cui farse andrà dedicato un intervento specifico, ora che l’apposito ministro della cosiddetta giustizia ha mandato in soffitta l’ultimo scampolo di deterrenza contro il mercimonio amicale), oppure professionisti più o meno affermati, del tutto incuranti delle retribuzioni vergognose, che approfittano del titolo professorale per arricchire il biglietto da visita e acquistare peso sul mercato. Il problema è antico e sempre quello: un contratto di ricerca, a parità di salario, costa all’istituzione circa 38.000 euro, un assegno di ricerca, esentasse, 25 mila, e quindi continuano a proliferare almeno fino alla fine del 2024, e all’orizzonte c’è la fine della sbornia del famigerato PNRR anticipata da un taglio di quasi un miliardo del fondo di finanziamento ordinario, a fine luglio scorso. Nel frattempo, i precari assunti nelle università italiane a vario titolo (RTD, assegnisti, contrattisti) lievitano e oggi sono il 45% del totale, circa 35.000 persone: «Il 90% di chi ha fatto il dottorato, assegno, ricercatore, viene espulso dall’accademia. Il 10% che ce la fa si fa mantenere, va in terapia, rimanda la vita» (Rosa Fioravante, Associazione Dottorandi e Dottori di Ricerca in Italia). E vai a spiegare che le stesse prefiche che oggi ci fanno il predicozzo con la fuga dei cervelli – il loro certamente è fuggito dalle calotte craniche – flessibilità e altre baggianate un tanto al chilo, a 30 anni entravano nelle istituzioni per alzata di mano con ricchi e tutt’altro che indeterminati contratti, oggi si godono lauti stipendi o pensioni e magari alla Maserati un pensiero ce lo fanno. Il risultato? Invece di avere un solo tipo di contratto pre-ruolo con salari e diritti adeguati e poi entrare stabilmente a fronte di una valutazione positiva, come accade in quasi tutti i paesi europei, se ne potrebbero avere addirittura cinque o sei, vediamo come. Il DDL uscito dal Consiglio dei ministri di inizio agosto, nominato “Disposizioni in materia di valorizzazione e promozione della ricerca” prevede infatti cinque figure, in aggiunta al contratto di ricerca creato nel 2022 dal Conte 2 e inalterato dai Migliori, la cui applicazione però è piuttosto incerta dato che mancano chiarezza e accordi sulle modalità. La prima aggiunta è il contratto post-doc, identico al contratto di ricerca in tutto tranne che per la durata, che viene limitata da un minimo di un anno a un massimo di tre, contro il minimo due e massimo sei del contratto di ricerca. Tornano anche gli assegni/borse di ricerca, non contratti di lavoro dunque, con due figure, una junior una senior, assunti per chiamata diretta del docente, senza concorso, con un livello di garanzie e di tutele simile a quello del vecchio modello. La loro durata è tra uno e tre anni ciascuno, fino a un massimo di sei anni. Le docenze a contratto vengono invece sostituite dalla figura del professore aggiunto, altra figura a tempo assunta senza concorso dagli atenei, che potrà trattare la sua durata e retribuzione individualmente. Infine, le attuali collaborazioni (poco) retribuite degli studenti (anche dette “150 ore”) saranno estese anche al supporto alla ricerca tramite il contratto di collaborazione per studenti.
E vai col merito, la giungla è servita! D’altra parte, scriveva il meraviglioso Gómez Dávila, «tra poche parole, come tra pochi alberi, è più arduo celarsi», e quale miglior servizio ai nuovi baronetti rampanti che una selva di corollari tra cui mimetizzarsi? Ma alla fine, signora mia, ancora parliamo di qualità della ricerca, della didattica e altri passatempi per servette? L’Italia è il paese europeo in cui i giovani neolaureati hanno il peggior tasso di occupazione, Eurostat lo certifica anche per il 2023, pari al 67,5% degli italiani tra i 20 e i 34 anni, anche i più qualificati, contro una media continentale dell’83,5%, e una distanziazione crescente dalla nazione penultima, la Grecia.
Posata la corona d’alloro, il dubbio è legittimo: sarà il caso di chiudere pure queste università, oltre le disastrate scuole? I patrioti 2.0 ci facciano entrambi i regali, e non pensiamoci più.