L’errore di un titolo che tratta di “normalità”-disabilità-comunicazione
L’episodio assai sgradevole accaduto recentemente al concerto di un popolare cantante, colpevole di aver deriso e maltrattato una persona disabile, riacutizza un modello sociale che ancora troppo frequentemente il ritardo culturale o l’apparente solidarietà, smentita poi fattualmente da alcuni, riportano a galla con la forza di un gong sinfonico.
Scuse tardive e poco convincenti hanno indignato ancor di più l’opinione pubblica generale.
Chi, fra i cosiddetti “normodotati”, non si è trovato o si trova in difficoltà nell’ usare parole come : diversamente abile invece di handicappato, non vedente invece di cieco, persona speciale ecc. ? In effetti può succedere in buona fede, ma non saranno questi i motivi di spinta al titolo dell’ articolo.
La velocità con la quale si coniano nuove terminologie identificative è quantomeno pari alla velocità epocale che stiamo vivendo in tutto. Per quelle generazioni già da un pezzo su questa terra, non è certo facile prendere ritmi diversi da quelli con i quali ci si è formati, ma il fatto citato sopra è, oltretutto, da mettere nei cassetti dell’ego, della poca empatia, della malgestione dello stress e probabili altri fattori. Vedremo più avanti come quanto detto fatalmente si interseca con diverse conseguenze.
Non tutti i comunicatori (di qualunque genere divulgativo si tratti), sanno che Il Decreto disabilità 2024 ha introdotto alcune novità riguardanti la definizione e l’identificazione delle persone con disabilità. Al netto (come si dice oggi) di sensibilità personali che aiutano sempre, anche in caso di ignoranza non Socratica.
La parola “handicap” è, ad esempio, stata sostituita con “condizione di disabilità”, giusto per citarne una sola.
Ebbene, il significato delle parole da vocabolario o dei giusti e conquistati neologismi relativi all’oggetto trattato, assume pesi ben diversi dipendentemente dall’ interlocutore, il quale (se in condizioni di disabilità) si trova a dover sopportare quotidianamente imposizioni comunicative o verbali e vincoli, ai più invisibili.
Il lavoro, a mio avviso, sull’empatia da trasmettere ai giovani in fase formativa (coinvolgendo famiglia, scuola, lavoro, istituzioni, società) assume una importanza paradossalmente ancor più significativa, per non trovarsi con ritardi culturali di grave deficienza sociale che, si è visto, originano poi nella comunicazione; comunicatori saccenti, disattenti, autosabotanti inconsapevoli o, per sottocultura, anche surrogati di “maitre a penser tuttologi” che parlano da pulpiti di cartapesta. Questa epoca che ha convinto molti di potersi esprimere su ogni terreno, creando influenza di basso cabotaggio, ne è piena.
Il comunicatore quindi (giornalista, coach, istruttore, insegnante, cantautore e così via) data pure la mole di informazioni, suggerimenti linguistici, deontologia o altri strumenti di cui può disporre senza scuse, è oggi obbligato a rivedere il vocabolario fin’ora usato dal sistema generale, in favore di una maggiore etica della parola, senza dover attendere decreti legislativi che impongano aggiornamenti comunicativi e identificativi di stati di disabilità, attraverso termini differenti e meno offensivi o discrimintori.
Questa condizione che “inferiorizza”, va perciò decostruita mediante un linguaggio che faccia capire quanto, lo stesso, possa ricreare un approccio culturale più inclusivo.
In teoria, quando si parla e si scrive, sappiamo quanto è necessario essere consapevoli degli effetti che queste primarie forme di interazione possono avere verso tutti.
A maggior ragione in direzione di chi si suppone sia (o secoli di emarginazioni ci hanno inculcato) inferiore.
E’ curioso (forse neppure troppo ormai) notare come fra i principali umani “inferiorizzati” ci siano ancora le donne e i disabili ai primissimi posti.
Aggiungiamo che, nel corso della nostra storia, termini come : mongolo, deficiente, spastico, ecc., continuano ad avere un’accezione disastrosa; oggi resi irricevibili e indecenti ( più che giustamente), così come dovrebbe divenirlo ogni ghettizzazione verbale entrata da tempo nel lessico di quelli che chiamo “ritardati culturali” e che putacaso sono spesso dentro al gigantesco circo dei cosiddetti “normodotati”. Al proposito ho invece sempre, e non spesso, constatato che i miei cani sono stati più empatici, intelligenti e a modo di molta gente normodotata che ho conosciuto. Questo è un assioma.
Tutti questi sono casi in cui la comunicazione e la formazione rivolta ai più giovani, dagli insegnanti, dai familiari, dagli esempi sociali…non è più materia dalla quale poter svicolare. Infatti, quei BOOMERS che non hanno saputo correre assieme al correre dei tempi, inciampano e cadono sotto il giudizio di quella società aggiornata e più sensibile che non perdona, che ti bolla, che ti cassa, seppur cantante o attore famoso autonominatosi portatore di pseudo morali. Parlo in generale.
Si sa che i retaggi sono duri a morire perchè secoli di subcultura e imposizioni sociali pesano sulla nostra formazione e sul nostro immaginario collettivo. Una disparità di percezione della quale perfino pubblicità recenti, cosiddette progresso, a volte sono responsabili; usando toni paternalistici e divisivi, per non parlare di quelle pubblicità nate dalle cosiddette generazioni silenziose che hanno avuto successo negli anni 50-70 in particolar modo.
Illuminante esempio è quel commercial del Ketchup dall’apertura semplificata che spiega: “anche una donna può aprirla”.
Oppure una sfilza di luoghi comuni ghettizzanti sui disabili eterni dipendenti dagli altri per pietà, incapaci di condurre una vita accettabile. Esseri, nei confronti dei quali era necessario creare distacco, esclusione, diversità. Belle campagne di sensibilizzazione direi.
Chi ha creato queste genialate da Penseur dell’Agorà, mi spiace dirvi che è stato pure pagato.
In realtà, nel tempo, si è visto che i disabili hanno dovuto imparare ad essere i veri “superumani”, affrontando barriere culturali, fisiche, sociali, architettoniche; arrivando a dimostrare come si possa diventare perfino super atleti.
L’argomento è infinito e molto articolato. Partiamo, in conclusione, da questa breve riflessione sull’epicentro dell’articolo, a supporto di quanto detto, che almeno diventi un mantra per tutti noi:
IL LINGUAGGIO HA IL POTERE DI INFLUENZARE LA CULTURA. LA CULTURA HA IL POTERE DI INFLUENZARE IL LINGUAGGIO.
Perchè la comunicazione, l’empatia e la parola, soprattutto nel mondo di chi vive la difficoltà sensoriale, motoria o psichica che sia, o in chi crede di essere solo un peso; hanno una importanza primaria, essenziale, vitale.
Chiedetelo a LORO, e vedrete cosa vi risponderanno.