Possesso sociale

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Nella società attuale la cultura dominante è ancora ancorata a elementi strettamente legati alla concezione di possesso. Si consideri come, nel corso del tempo, l’accesso ai piccoli finanziamenti abbia consentito alle persone di accedere, tramite rateizzazioni, a beni altrimenti irraggiungibili. Questo fenomeno ha alimentato la tendenza a fondare la concezione di sé non sul lato umano, morale e valoriale, ma sul riconoscimento sociale per mezzo del possesso di beni materiali fittizi, peraltro soggetti a breve durata. Il distaccamento che viene a crearsi tra possibilità reali e ideali non fa altro che fomentare l’immaginario relativo al fatto che, quanto accade nei mondi virtuali, sia una vera rappresentazione della vita concreta delle persone. Non stupisce quindi come un ragazzo possa accoltellare un suo pari per un like messo alla ex fidanzata. Le persone, in questi casi, spesso non vengono amate e tenute in considerazioni come individui, ma come proprietà. Quanto accade è determinato dal fatto che questo scollamento tra reale e idealizzato accresce il senso di frustrazione dato dal fatto di non essere quanto la società pensiamo si attenda da noi. Se andiamo a inserire questi elementi all’interno del discorso educativo, dove i giovani non sono stati cresciuti alla tolleranza alla frustrazione, ma, al contrario, sono stati educati all’ottenimento immediato di ogni desiderio, è semplice comprendere come il passaggio dal pensato all’agito sia più immediato, in quanto mancante il filtro della mediazione fornito dalla capacità di saper attendere. Nel momento in cui il piacere dell’attesa viene tolto, vengono necessariamente a mancare le condizioni che permettono di perseguire un obiettivo e la gratificazione che viene data dall’ottenimento di esso grazie allo sforzo e all’impegno. Siamo dinnanzi a dei ragazzi cresciuti con un fragilissimo senso di onnipotenza che andrà in frantumi alle prime difficoltà, con il risultato di trasformarsi in un profondo e diffuso senso di angoscia e di inadeguatezza. L’accesso a un surplus di beni materiali concorre alla formazione di un Sé grandioso che poco riesce a mediare con le asperità del quotidiano. L’avere tutto e subito non consente di sviluppare il desiderio, di tollerare l’attesa, di progettarsi nel futuro, di darsi obiettivi e di trovare soluzioni anche creative per il raggiungimento degli stessi. La tendenza che andrà a svilupparsi sarà quella del consumo scevro da emozioni, con la conseguenza di far sentire i figli da una parte padroni del mondo e, dall’altra, di essere anestetizzati a causa del bombardamento sensoriale che va ad inibire il processo di rielaborazione delle informazioni. I giovani si sentiranno pertanto vincolati dal tutto e subito correndo il rischio di divenire dei piccoli narcisisti fragilissimi, incapaci di assaporare la gioia delle cose e ancor più incapaci di tollerare la frustrazione della perdita e del conflitto. I figli, per costruirsi un’identità integra, necessitano di imparare a conoscere, riconoscere, gestire e modulare i propri stati emotivi. Senza questa decodifica rimarranno in balia di quanto provato, ma, al contempo, saranno anche spinti alla realizzazione immediata. Il problema non concerne quindi solo l’avere troppo, con conseguenze importanti anche sull’impossibilità di sviluppare capacità decisionali, ma quanto è pregnante è che essi sentono poco. I figli sentono poco il limite della gratificazione, la validità di una relazione significativa e la forza di un buon contenimento affettivo ed emozionale. Se non si abituano i bambini e i ragazzi all’attesa non si consente loro di affrontare le frustrazioni e di trovare degli strumenti per gestirla. Se non permettiamo loro di stare da soli senza sentirsi soli, imparando ad utilizzare la creatività per sopperire alla noia, il rischio sarà quello di avere degli adolescenti non in grado di sopportare anche le più piccole sensazioni disturbanti. L’effetto sarà quello di dar luogo a comportamenti violenti e violanti. Nell’aggressione i giovani tentano di percepire un’identità con la sopraffazione dell’altro, nel tentativo di modulare le proprie risposte emotive senza riuscirci. Attraverso l’atto violento tentano di attenuare il sospetto della rappresentazione di un Sé percepito come inadeguato e che si vergogna dei propri limiti e delle proprie paure. Un comune denominatore della rabbia adolescenziale è rappresentato dal forte bisogno di esprimere e comunicare dolore, sofferenza, angoscia, paura dell’abbandono. Spesso non si sentono capiti e questo non fa altro che rafforzare la convinzione di inadeguatezza e la conseguente paura a cui, in difesa, si risponde con rabbia, sovraccaricati da quel senso di possesso ingestibile nel momento in cui avviene la perdita, in quanto mancanti gli strumenti che consentono la tolleranza alla frustrazione.