LA PRONA SCUOLA:PER CHI SUONA LA CAMPANELLA?

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Non sarebbe fine agosto se non ci ammorbassero puntualmente con i soliti grotteschi problemi della scuola italiana di ogni ordine e grado: le condizioni fatiscenti degli istituti, gli introvabili dirigenti scolastici misteriosamente dislocati tra isole e montagne, il buco degli insegnanti mentre migliaia di laureati, specializzati e addottorati per tirare a campare portano le pizze in bicicletta, i supplenti che non scorrono nonostante graduatorie di ogni tipo, tutte bloccate, che fanno la felicità degli impiegati dei sindacati di categoria – che non risolvono un bel niente se non il proprio stipendio, come in ogni centro per l’impiego che si rispetti, il loro impiego si intende – il sostegno alle disabilità che non sostiene a fronte di centinaia di marchette universitarie che compravendono abilitazioni, il personale ATA ammutinato, che guai a chiamarli bidelli perché la lingua ferisce e dalla discriminazione lessicale si passa al body-shaming in un batter di ciglia. E sottolineo grotteschi, perché ci vendono la stessa storiella dai tempi della riforma Gentile e tutti sanno tutto, tipo il giorno della marmotta: è come avere il reflusso esofageo ma continuare a far colazione con il Campari al posto del latte di soia, in attesa che i nuovi patrioti del merito rimettano le cose a posto a suon di umiliazioni, sequestro del cellulare e littoria disciplina. Al punto che verrebbe voglia di chiuderle per sempre queste scuole, magari sostituirle con le colonie penali, dal momento che gli analfabeti funzionali in questo martoriato paese superano ormai il 30% della popolazione tra i 16 e i 65 anni (indagine Piaac-Ocse 2021/2023) e le leggendarie generazioni Z e Alpha, i nuovi barbari rintronati dalla natività digitale, si esprimono a grugniti e geroglifici, non decodificano la punteggiatura e quindi la comprensione di un semplice periodo composto da frase principale e coordinata/subordinata, non riescono a computare una semplice bolletta o lo sconto di un negozio e, manco a dirlo, non hanno la minima idea di come funzioni uno strumento informatico che non siano le icone dello smartphone.
Ma nella scuola postmoderna in cui gli anni non si ripetono più e i debiti formativi – una volta ci rimandavano a settembre – aumentano l’entropia cognitiva almeno quanto i registri elettronici e le chat d’istituto, la bocciatura più severa la meritano gli altrettanto postmoderni genitori, automi gonadici produttori della categoria antropologica più controversa della cosiddetta società occidentale avanzata, vale a dire il figlio come progetto, quasi sempre uno sfogatoio delle nevrosi e del delirio di affermazione dei suoi artefici: «Il figlio è mio e me lo promuovo io. Potrebbe essere lo slogan dei genitori ricorrenti. Quelli che, sempre più spesso, si rivolgono al giudice per cancellare le bocciature dei figli. O semplicemente per correggere delle valutazioni che ritengono inadeguate» (Marino Niola, il venerdì, 9 agosto 2024).
Breve digressione: dialogo archetipico tra l’autore di questo trascurabile contributo e i genitori, negli anni dell’inflessibile liceo scientifico frequentato nella città dell’agro palustre fondata da Lui nel 1932 (e considerata da sempre il laboratorio politico di ogni destra neo, post, ex, vetero che sia), dopo una nota disciplinare o un votaccio: Mi è successa questa cosa, ma non lo meritavo! – Se è successa è perché lo meritavi (papà, tombale) – Ne parleremo al prossimo ricevimento coi professori (mamma, comprensiva) – Dal momento che ce lo hai detto, per una settimana non uscirai (canto corale) – punto e stop, fine del discorso.
Insomma, dall’autoritarismo della scuola alla querela facile; oggi il pupo e la pupa non si toccano, sono i più belli e intelligenti, infallibili, mai colpevoli, protetti da ogni frustrazione con l’unico risultato di renderli sempre più fragili, assecondati su tutto nel disastro educativo che vede gli insegnanti sempre più soli. L’alleanza pedagogica che un tempo stringevano con i genitori è sostituita dall’alleanza patologica di questi con i pargoli: «…resta l’impressione triste e sconfortante di uno scollamento sempre maggiore tra le ragioni formative della scuola e quelle giustificative delle famiglie» (Ibidem). Già, la famiglia, questa sorta di universale culturale buono per tutte le stagioni, che lava i panni sporchi, piace anche ai preti che non ne hanno una di formazione e drena il fondo del barile dello sgangherato welfare nazionale, al punto che, se uno resta da solo, può anche morire di stenti, è fuori dalla contabilità evangelica, quantomeno dipinto come un instabile misantropo da tener lontano dai bambini. D’altra parte, per chi ci crede, qualcuno ben più importante di noi disse “andate e moltiplicatevi”, che è una roba ben diversa dal più castigato “andate e sposatevi”. La famiglia non è altro che una delle possibili strutture organizzative dell’atomo sociale, un prodotto culturale regolamentato da una branca del diritto, non un dato naturale, la cui funzione storica è abbondantemente logorata, essendo peraltro stata a lungo lo strumento principale di controllo della libertà sociale e sessuale delle donne, oltre che l’unica possibilità di fuoriuscita dal nucleo originale. Sarà pure un caso, ma una delle nozioni più utili per inquadrare la degenerazione etica delle società mediterranee è proprio quella di “familismo amorale” introdotta da Edward Banfield nel 1958 dopo due anni di studi sul campo nel Mezzogiorno d’Italia, simbolizzato dal paesino fantasioso di Montegrano (“Le basi morali di una società arretrata”, Il Mulino, 1976). La regola aurea, controversa finché si vuole ma non peregrina, è proprio quella di massimizzare i vantaggi della famiglia nucleare a ogni costo, contro tutto e tutti gli altri, percepiti come competitori che agiscono allo stesso modo; la cooperazione è ammessa solamente in vista di un tornaconto per la propria cerchia, il senso civico e di comunità soccombono di fronte all’immediatezza del vantaggio personale, e tutto ciò viene riprodotto di generazione in generazione nel segno dell’indissolubilità dei legami di sangue e di affiliazione. Tra le cause principali di questa distorsione Banfield indica proprio l’educazione dei bambini che, se troppo permissiva, li spingerebbe all’egoismo e a divenire adulti a loro volta egoisti e insofferenti all’autorità altrui. Anche un meccanismo punitivo poco connesso ai concetti di bene e male e più legato al capriccio del genitore, inculcherebbe nel bambino e nel futuro adulto l’idea che ogni potere sia capriccioso, e che quindi sia possibile sottrarsi a qualunque forma di contenimento della propria volontà.
Non c’è dubbio che oggi assistiamo a una considerevole rimonta della retorica dei legami, che poi si estendono alle cerchie sociali alle quali a vario titolo apparteniamo, e che una delle conseguenze più distruttive sia proprio la tendenza a minare l’autorevolezza e la credibilità della scuola: tra i consigli non richiesti di fine estate, ci permettiamo di segnalare l’ultimo, splendido numero di MicroMega (4/2024 – “Contro la famiglia. Critica di un’istituzione (anti)sociale”), che affronta da molteplici punti di vista gli aspetti antipolitici e antisociali della famiglia e del familismo.
Dopotutto, dalla famiglia alla casta alla cosca il passo non è così lungo.