Il Medioevo e il concetto dell’intelligenza: dal Liber de causis a Dante

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Dante è per eccellenza da considerare il poeta dell’intelligenza, così venne infatti definito dal filologo italiano Giovanni Getto: «la poesia di Dante è poesia dell’intelligenza, poesia in sostanza che si nutre di quei sentimenti che intorno alla esperienza intellettuale, appassionatamente realizzata, si generano e vivono».

Il concetto di intelligenza dantesca si presenta come una medaglia a doppia faccia, la faccia buona, quella che va a concretizzarsi con ascesa del Poeta Paradiso, che però va a contrapporsi a quella cattiva, cioè quella di Ulisse e i suoi compagni. L’intelligenza è per Dante il connotato che per eccellenza distingue l’uomo dalla bestia. Tale termine va però contestualizzato, esso, infatti, era ampiamente utilizzato nella filosofia Duecentesca e il Sommo Poeta nella Comedia con esso si riferisce principalmente alle intelligenze angeliche. Tale termine lo si trova anche nel Convivio (II) dove indica le intelligenze motrici, cioè quelle angeliche della tradizione ebraico-cristiana. Nel Convivio (II, IV 2 e seguenti) il Poeta cerca di fornire al lettore un’articolata definizione di intelligenza mettendone in evidenza il loro carattere di sostanze separate da materia. La definizione si articola secondo il classico ragionamento della scolastica: «È adunque da sapere primamente che li movitori di quelli [cieli] sono sustanze separate da materia, cioè intelligenze, le quali la volgare gente chiamano Angeli. E di queste creature, sì come de li cieli, diversi diversamente hanno sentito, avvegna che la veritade sia trovata. 3. Furono certi filosofi, de’ quali pare essere Aristotile ne la sua Metafisica, che credettero solamente essere tante queste, quante circulazioni fossero ne li cieli, e non più: dicendo che l’altre sarebbero state etternalmente indarno, sanza operazione; ch’era impossibile, con ciò sia cosa che loro essere sia loro operazione».
Dante illustra poi come tali intelligenze svolgano il loro compito di principi motori dei cieli. Il Poeta spiega che la virtù divina discende dal Primo Agente alle cose generate, per il tramite appunto delle intelligenze: «Ove è da sapere che discender la virtude d’una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine, sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente; che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quelle a loro similitudine, tanto quanto possibili sono a venire ad essa». Continua poi: «Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che ’l vede. 4. Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l’altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. 5. Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò [la] differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare ‘luce’ lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’, in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso».
Le parole dantesche molto mutuano dall’opera dello pseudo-aristotelico, Liber de causis, già presente in vari codici manoscritti del XIII e citata da Alberto Magno e Tommaso D’Aquino. Cerchiamo ora di capire cos’è il Liber de causis. Brevemente si può dire che è un elenco di proposizioni a carattere filosofico e teologico, realizzato nel circolo filosofico di al-Kindi intorno alla metà del IX secolo. Per molti secoli fu erroneamente attribuito ad Aristotele. Fu tradotto in latino da Gerardo da Cremona nel 1180. Il primo a contestarne l’errata attribuzione fu Tommaso D’Aquino. Il modello di un edificio sistematico del sapere che iniziava dalla logica e si concludeva con la metafisica, articolata in scienza delle cause prime e supreme, e teologia razionale della processione dell’universo dall’Uno, la quale rivendicava il carattere di scienza dimostrativa, si era così tanto affermato nei secoli che le contestazioni di Averroè e di Tommaso non impedirono che si continuasse a leggere e commentare questo testo. Dopo la chiusura delle scuole filosofiche di Atene nel 529, il pensiero di Aristotele venne in parte trascurato dall’occidente latino, ma venne conservato nei monasteri grazie ai monaci ed in Mesopotamia e Siria grazie all’opera di traduzione delle sue opere dal greco in arabo per lo più per opera dei cristiani nestoriani. I compilatori siriani e persiani però inserirono nel catalogo delle opere di Aristotele due opere apocrife di stampo neoplatonico, il Liber de causis e La teologia di Aristotele, tratto dalle Enneadi di Plotino. Citato per la prima volta da Alano di Lilla, fu considerato opera di Aristotele fino al 1268, quando Guglielmo di Moerbeke tradusse l’Elementatio Theologica di Proclo, e Tommaso scoprì esserne questa la fonte immediata. Tratta dell’ordine gerarchico delle cause, a partire dalla prima, anteriore all’eternità, all’essere stesso e, di conseguenza, all’intelligibile. La causa prima risulta dunque indefinibile, ma la si può chiamare Bene, o Uno. Tutto ciò che non è Bene/Uno è molteplice: la prima di queste cose create è l’essere, seguito da un’Intelligenza pura, che è piena di forme intelligibili. Ogni anima che ne discende possiede dunque naturalmente in sé i sensibili, poiché è piena delle loro forme.
Dopo questa breve digressione sul Liber de causis, tornando al passo dantesco precedentemente citato, esso dimostra come il Poeta concepisca le intelligenze come pure forme immateriali e intellettive intermediarie tra il Dio creatore e l’ordine delle cose mondane. Nel mondo dantesco tutto è messo in moto dall’intelligenza che a cascata partendo da Dio giunge sino agli uomini, rendendoli razionali e distinguendoli dalle bestie. Le intelligenze conoscono la ‛ forma ‘ umana in due modi diversi, e anzitutto in sé stesse, in quanto conoscono Dio come cagione o causa ‛ universalissima ‘ di tutte le cose. Tutto origina dalla luce divina, la quale è causa del loro essere, permette loro infatti di scorgere in quella stessa luce la «forma generale» e la stessa essenza umana. Tale modalità di conoscenza è proprio di tutte le essenze separate e non soltanto delle intelligenze motrici. Queste ultime conoscono la forma umana in maniera particolare in quanto sono «spezialissime cagioni di quella», e cioè in quanto contribuiscono, come cause intermediarie, all’opera della causa divina. Nella concezione dantesca tutto è conseguenza della luce divina che irradia il creato. L’intelligenza quindi non è più solamente la naturale spinta alla conoscenza, ma nel suo aspetto più profondo e fondamentale è la capacità di accettare i limiti umani, i limiti dell’intelligenza umana, per affidarsi a quella divina. Nella concezione cristiana l’intelligenza porta l’uomo a riconoscere i propri limiti davanti al divino, mentre in quella pagana, si pensi ad Ulisse, lo porta a sfidare gli dei. Dante riconosce i propri limiti, i limiti dell’umano, così infatti è riportato nell’ultimo canto del Paradiso:
«non eran da ciò le proprie penne
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ’l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle».

Il Sommo Poeta è pienamente conscio dell’insufficienza del suo intelletto/”penne” e infatti non è grazie a questo che può soddisfare il suo desiderio, ma grazie ad «un fulgore», un’indefinita luce potentissima che rappresenta l’inconoscibilità e il mistero divino, «l’amor che move il sole e l’altre stelle». Ecco che ritorna quella luce pregna d’intelligenza che tutto irradia e tutto muove.