SÌ, CHEF! DALLA PADELLA ALLA PIATTAFORMA

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Nell’unico paese al mondo in cui i poveri, secondo alcuni, si nutrono meglio dei ricchi perché «cercando dal produttore l’acquisto a basso costo comprano qualità», chissà se l’uomo è ancora ciò che mangia, e mal ne colse al padre del materialismo tedesco Ludwig Feuerbach, che per tutta la vita si strusse al pensiero di uno degli aforismi più abusati di sempre, accusato di aver sporcato il pensiero filosofico con una metafora gastrointestinale. Già lo vedo il disoccupato di Somma Vesuviana, tra una fila ai servizi sociali e mezza giornata in nero, a contrattare le migliori stagionature del salame di Agerola e altre leccornie a chilometro zero (qualunque cosa voglia dire). Siamo o non siamo, insieme a Spagna e Grecia, la trimurti mediterranea che ha trasformato un modello nutrizionale contadino in una questione di onore, come se in altre parti del mondo non sapessero cos’è una lenticchia o un cavolo verza? E in cui un po’ tutti, dal commesso del supermercato sotto casa al professionista engagé, ritengono indispensabile informarci via social di tutto ciò che inghiottono da mane a sera, con raffinati report fotografici: cappuccini con imperdibili fantasie schiumate a forma di cuore, tartine con polvere di licheni e basilico cristallizzato, ogni forma di vita ittica rigorosamente in ceviche o catalana, ché alla maniera della nonna fa un tantino tristezza.

In questo strazio alimentare tutto è neurovisivo, «trasformando il piccolo schermo – ci avvertono i signori e padroni di Sky/Netflix – in un delizioso viaggio culinario […] esplorazioni di ristoranti e suggerimenti dei migliori chef », anche se la sensazione è che questi sussiegosi professori dei fornelli non vedano una cucina da quando rubavano la marmellata nella credenza, impegnati come sono in sala trucco: MasterChef Italia, 4 Ristoranti, Antonino Chef Academy, Maitre Chocolatier, Celebrity MasterChef, MasterChef All Stars, Accademia di pasticceria (per la sezione Talent); Cucine da incubo, Piatto ricco, Food Markets, I buongustai dell’arte (Reality e documentari); le tassative ricorrenze festive (Dolci di Pasqua, Natale con Iginio Massari, Buone Feste); varie contaminazioni regionali e internazionali tipo Hell’s Kitchen USA, MasterChef Australia, Home Restaurant, Celebrity Chef, Cuochi d’Italia, Dessert Masters, ‘Na pizza, Cocktail Tour. E, a quanto pare, anche chi decide di rinnegare il vangelo secondo Michelin, non resiste alla tentazione della macchina da presa.
È il caso di René Redzepi, quarantaseienne chef di origini albanesi e titolare del Noma di Copenaghen, eletto per cinque anni come miglior ristorante al mondo, in chiusura alla fine del 2024: «La ristorazione è un lavoro molto stressante, dove tanti arrivano a malapena alla fine del mese, e se le trattorie e i bistrot resistono è perché sono a conduzione familiare […] abbiamo realizzato la serie (Omnivore, NDR) con l’intento di raccontare una storia, non di fare profitti».

Omnivore, per inciso, è la serie curata e narrata da Redzepi, disponibile su Apple TV+ dal 19 luglio. Se non altro, raccogliendo indizi da una bella inchiesta di Marco Consoli e Riccardo Staglianò (il venerdì, 12 luglio 2024), prendiamo atto che un pasto da 500€ non è sufficiente a garantire un salario dignitoso alla brigata del tristellato più ambito, circa 100.000 richieste di prenotazioni al mese: «I menù degustazione con carte dei vini stellari – sostiene il critico Davide Paolini – non possono sopravvivere, se non per i turisti americani […] in Francia l’alta ristorazione è diventata importante quando il primo operaio della Renault ha portato la figlia in un tre stelle». Con la doverosa precisazione che l’Italia è l’unico paese Ocse in cui dal 1990 i salari hanno costantemente perso potere d’acquisto, e peccato per i poveri alla ricerca appassionata della salutare caciotta del “produttore”.

Non tutto fa brodo, direbbe Marino Niola – antropologo e acuto osservatore delle dimensioni sociali e culturali del cibo – che ha registrato con mestiere il mutamento dell’homo edens in homo dieteticus, dal crudista al gluten free, ognuno alla ricerca della propria tribù, del proprio modello alimentare acutizzato dall’indigestione catodica: «Passioni, ossessioni, emozioni, tradizioni, trasformazioni, repulsioni, contraddizioni, contaminazioni. Tutto si dice attraverso il cibo. Dalla scoperta del fuoco all’invenzione della piastra a induzione, gli uomini si distinguono in base alle loro grammatiche alimentari. Cosa mangiare, cosa non mangiare, quanto, quando, come, perché, con chi. Tipi di cottura, successione delle portate, galatei culinari, tabù religiosi, digiuni e astinenze». Se l’uomo è ciò che mangia, il cibo non è più un mezzo di sostentamento sorretto dal rituale della convivialità, ma una religione nascente. Nel mentre, ci avvisano che alcuni paesi europei vorrebbero applicare un semaforo sulle confezioni dei cibi, un nutriscore basato su un algoritmo per decretare se un alimento è sano o no. E l’autore di questo breve intervento, all’improvviso, ha voglia di un McDonald’s.