LA SCIMMIA PENSANTE E LA SOLITUDINE DIGITALE

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A quanto pare, dopo il fumo, quantità e qualità delle nostre amicizie sono i fattori che incidono maggiormente sulla nostra mortalità, sul modo in cui gli esseri umani si ammaleranno e moriranno.

O almeno così sostiene Robin Dunbar, influente antropologo dell’evoluzione all’Università di Oxford e tra i massimi studiosi di relazioni sociali, che in un saggio pubblicato in Italia da Raffaello Cortina nel 2011 individuò il numero massimo di contatti stabili che si possono avere in 150 (definito, appunto, il numero di Dunbar).

La sua tesi si basa sulla correlazione tra la dimensione dei gruppi sociali dei primati, incluso l’uomo, e la grandezza dei loro cervelli: maggiore il numero dei neuroni, maggiore la capacità di classificare le caratteristiche dei membri del proprio gruppo e scegliere la strategia più efficace per interagirvi. Questa complessa organizzazione neurale ci permette, da un punto di vista sociometrico, di articolare la qualità delle nostre relazioni – per loro natura rapidamente deperibili – secondo una scala di intimità: in un lungo e più recente saggio (Amici. Comprendere il potere delle nostre relazioni più importanti, Einaudi, 2022), Dunbar rappresenta questa stratificazione in cerchi concentrici basati sul tempo che dedichiamo agli altri, dai 1500 a cui saremmo appena in grado di associare un nome, fino ai 15 che sentiamo almeno una volta al mese e ai quali riserviamo più o meno il 60% del nostro tempo sociale: «I confini di queste cerchie emergono dai nostri comportamenti sociali, ad esempio dalla frequenza con cui su Facebook postiamo commenti dove specifichiamo il nome di una persona […] Oggi le nostre cerchie sono geograficamente molto più disperse, e riescono a mantenersi salde grazie a telefono e internet».

Quindi, spiega Dunbar, fermi restando l’importanza della prossimità e del giudizio sul costo personale che siamo disposti ad affrontare nella coltivazione e manutenzione delle nostre relazioni, «Meglio trovare occasioni per vedersi – di qualunque natura siano – e, in mancanza d’altro, ben vengano aperitivi o cene virtuali su Zoom».
Ovvio, perché il paradosso tardivamente evocato dai profeti delle magnifiche sorti e progressive della società globalizzata è una formula nata morta: siamo sempre più connessi ma isolati dal mondo reale, abbiamo sognato un mondo iper-integrato e ci ritroviamo ostaggi di bolle di solitudine in compagnia dei nostri cellulari. Parla proprio di “involuzione digitale della specie” un bell’approfondimento di Angelo Paura (MoltoFuturo, 20 giugno 2024) in cui si argomenta una progressiva depressione della svolta digitale, dall’invenzione del personal computer alla cosiddetta intelligenza artificiale: «Proprio sulla solitudine ci sono decine di studi, soprattutto sui bambini e gli adolescenti che mostrano come con l’aumento del consumo di social media, diminuisca l’interazione sociale e aumenti l’isolamento. Una delle tante analisi svolte sulla Gen Z – i giovani nati tra il 1997 e il 2012 – mostra come il 73% delle persone appartenenti a questa generazione si sente solo alcune volte o mai». Secondo uno studio statistico della University of California, aggiornato nel 2019 e in corso di nuova revisione, sono circa 70 i minuti quotidiani che i giovani, tra i 15 e i 24 anni, trascorrono in compagnia “fisica” con i loro coetanei: nel 2003 il tempo era di 150 minuti.
Senza voler rincorrere a tutti i costi il mito del buon selvaggio corrotto dalla società e dal progresso, e prima di abbracciare toto corde il monito degli apocalittici alla Jaron Lanier, che indicava le “dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social”, per la verità in aspra polemica con i miliardari della Silicon Valley coalizzati per raccogliere i nostri dati e influenzare i nostri comportamenti, è utile spiegare la stessa idea attraverso la posizione dello psicologo Jonathan Haidt – ricordato anche dall’autore dell’inchiesta giornalistica – che ha da poco pubblicato The Anxious Generation: How the Great Rewiring of Childhood Is Causing an Epidemic of Mental Illness (2024). La tesi sostenuta in questo saggio è molto lineare: la diffusione massiva degli smartphone, dei primi social media e in particolare di Instagram (il libro dei sogni e dei filtri, aggiungerebbe l’autore di questo breve intervento) e una genitorialità iperprotettiva hanno provocato un reset patogenetico dell’infanzia e dell’adolescenza, intrappolate nel mondo digitale da una sfida al ribasso della propria autostima. Gli abbondanti dati clinici citati da Haidt confermano che dal 2010 in poi i livelli di stress e i problemi mentali dei giovani sono sensibilmente aumentati. E quindi ben prima della nota pandemia.
Per chi ha qualche anno in più, se non altro, dopo un incontro fortuito reale o virtuale con qualcuno che non sentivamo da un po’ e in cui ci si promette di vedersi, sarebbe meglio farlo veramente.